martedì 12 luglio 2022

AMICI PER LA VITA: UNA COSA "DA DIO" - Ultima parte dell'intervista al gruppo LGBT "Cattolico" Gionata.

Quarta e ultima parte di un lavoro complesso che a partire da domande generiche ha cercato di indagare le ragioni di quella morale che da sempre la Chiesa ha insegnato a partire dal vangelo. In quest'ultima domanda ho cercato di andare al fondo di cosa significhi amare davvero per un cristiano (a prescindere dall'orientamento sessuale), dentro e fuori dal matrimonio e della grande possibilità d'amore che la società occidentale sembra avere dimenticato, ma che Gesù ha proposto come possibile per ogni uomo: l'amicizia.


L'amore è fatto di ben altro che della semplice attività genitale - che però ne è un componente. Perché la Chiesa ne fa, in alcuni casi (e non penso solo all'omosessualità) un peccato? Come si fa a respingere l'amore?

Prima di parlare di “respingere l’amore”, bisognerebbe capire cosa l’amore sia per un cristiano (e quindi per la Chiesa). Non c’è parola al mondo che sia stata più equivocata e abusata nella Storia, ieri come oggi. Dietro ad essa si nascondono infinite esperienze che con l’amore non hanno nulla a che vedere: possesso, gratificazione, abuso psicologico, dipendenza affettiva, piacevolezza della compagnia, sesso, scambio di favori, convenienza, paura di stare da soli...

Per i cristiani però non esiste amore che non abbia come riferimento l’amore di Cristo: dare la vita per i propri amici (Gv 15, 12-17)”. Gratuitamente. Perché gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date (Mt 10,8).  

L’amore di Cristo è un amore che dà senza condizioni, un amore libero che rende liberi, un amore che non possiede, ma esalta, gratifica e accresce. In ordine a questo non c’è Chiesa al mondo che possa definire l’amare così un peccato, che a viverlo siano un uomo e una donna o due uomini o due donne. Tutto ciò che invece non rientra in questo modo di amare, semplicemente non è amore.

Di tutto questo però “l’attività genitale” non è che un’infinitesima parte, peraltro non di certo la più importante. Essa è solo una espressione di una sola delle esperienze d’amore possibili tra due persone: l’amore sponsale. E anche in questo caso essa ha un senso solo in forza di tanto altro, che ha a che fare con la totalità di donazione esistenziale che solo nel matrimonio si può vivere. Come farei altrimenti a donarti la totalità del mio corpo (e quindi la totalità di me stesso, dal momento che io sono il mio corpo), se non ti ho donato la totalità della mia vita? Il rapporto sessuale infatti non ha senso se non a partire dalla verità di quella donazione, scritta nella promessa che gli sposi si fanno. Per tutta la vita, appunto.

È per questo che solo nel sacramento la genitalità diventa uno degli strumenti che rendono la coppia, anche nella sua unione carnale, immagine del Dio incarnato. Non a caso, questo è l’unico atto con cui l’uomo e la donna possono partecipare della creazione, generando nuova vita: una cosa che nessuna coppia omosessuale, per quanto fisicamente sana, potrà mai compiere. Per questo, per la Chiesa, l’atto sessuale tra uomo e donna nel matrimonio ha lo stesso valore sostanziale della consacrazione eucaristica sull’altare: l’unione sessuale, in comunione con Dio, trasforma la coppia in eucaristia, e il letto in altare. L’amore nuziale nel rapporto sessuale, diventa il dono di sé di Cristo alla Chiesa, il sacrificio che sconfigge la morte.

Capite quanto sia straordinario?! Mentre noi, anche tra uomo e donna, ci preoccupiamo di quanto ‘si può fare o non si può fare’, quanto toccarci, strusciarci, spogliarci, se ci si possa masturbare a patto di non venire; se il sesso orale possa essere un ‘gesto d’amore’; se il sesso anale sia un ‘dono di sé’; dopo quanto tempo possiamo sentirci autorizzati a fare cosa e con chi senza sentirci in colpa, ecc. ecc…, arriva qualcuno che alza il nostro sguardo da quello che ci succede in mezzo alle gambe e da tutte le scuse che cerchiamo per usare l’altro come strumento di piacere o gratificazione e ci chiede: “ma tu, sei in grado di amare davvero? Di amare come Cristo? Di diventare pane per gli altri? Di dare la vita? Di NON possedere? Di ricevere l’altro come dono, al di là del piacere che ti dà? Sì? E come lo sai se non sai stare con l’altro senza saperlo attendere, senza saper rinunciare al piacere che lui ti potrebbe dare? Dov’è la prova?”.

Ecco, di nuovo, se tutto questo passa come “tranchant” agli occhi del mondo… Be’ forse è perché a volte il mondo non ha molta voglia di sentirsi porre domande scomode sulle ragioni per cui vive le cose.

Capite come, al confronto con questo, qualsiasi altro modo di vivere la genitalità risulti una misera imitazione e uno svilimento di ciò per cui siamo fatti.

Tuttavia, il fatto di non potere vivere questo tipo di esperienza nell’unione sponsale, non solo perché persone con attrazione omosessuale, ma magari perché un marito o una moglie non ce l’abbiamo ancora (e forse non ce l’avremo mai), non deve rattristare, perché non preclude l’esperienza dell’amore autentico e donativo della vita. Infatti questa è un’esperienza che può fare chiunque a prescindere dallo stato di vita. Se così non fosse, se l’uomo potesse amare come Cristo solo nell’amare la propria moglie o il proprio marito, questo costituirebbe un’enorme ingiustizia nei confronti di tutti quelli che per un motivo o per un altro non hanno mai potuto vivere quel tipo di unione. Ma Dio non ha fatto l’uomo perché restasse solo (Gen 2,18), tuttavia non ha fatto tutti gli uomini perché fossero uniti in matrimonio. 

Per questo motivo quando Suo Figlio ha consegnato un insegnamento sull’amore ai suoi discepoli non ha parlato di amore sponsale, ma di amicizia. Questo significa che è nell’amicizia che si può vivere l’amore che Cristo ci ha chiamato a vivere per essere santi.  Perché l’amicizia può essere questo: un amore per la vita che dà la vita.

Il problema è che per molti di noi l’amicizia ha perso completamente il suo valore fondamentale e fondativo della persona: essa è considerata un riempitivo tra una relazione e l’altra, o un diversivo quando la nostra relazione non funziona. Invece l’amicizia è la prima forma di amore a cui siamo chiamati, l’unica che è possibile sempre, per tutti, ovunque.

Persino una coppia che non abbia amici, sarà destinata alla lunga a fare molta più fatica nella sua vita relazionale. La nostra società ha idolatrato l’amore di coppia svalutando quello dell’amicizia ed è questo che ci ha resi tutti più soli, in cerca di qualcuno che ci dia senso e che ci faccia sentire desiderati attraverso una relazione vissuta sessualmente, incapaci di accorgerci dei migliaia di potenziali fratelli attorno a noi che aspettano solo un amico con cui poter condividere la vita.

L’incremento di esperienze omosessuali tra i più giovani (e non solo) è in parte da attribuire anche a questo: siamo talmente poco abituati a fare l’esperienza dell’amicizia profonda che quando abbiamo un legame più stretto con un amico, invece di prenderlo per il dono che è, ci interroghiamo se esso non debba per forza nascondere “qualcosa di più”. Praticamente per sentirci autorizzati ad avere un desiderio preferenziale con qualcuno da amici, dobbiamo farlo diventare il nostro partner, mettendo di mezzo anche un aspetto genitale che non aggiunge niente a quel rapporto, ma anzi lo svilisce. Dimenticando che anche Cristo, pur essendosi donato a tutti totalmente, ha scelto alcuni in modo preferenziale su questa terra, perché lo accompagnassero in certi momenti importanti della sua missione pubblica, diversamente da altri. Mi riferisco a Pietro, Giacomo e Giovanni, scelti fra gli scelti. Eppure con nessuno di essi aveva rapporti sessuali.

Perciò va da sé che, se l’amore sponsale non è per tutti, anche la genitalità non è per tutti.

Ciò che invece è certamente per tutti è l’esperienza dell’Amore, quello vero, quello che libera, quello che ti apre all’altro senza possedere. Due uomini possono amarsi in questo modo, come ama Cristo, ma per farlo non serve che vivano la genitalità. Basta che siano amici, amici veri. Per la vita. Con un’intimità a cui il sesso non potrebbe aggiungere nulla. Poiché come abbiamo già detto in un’altra partedi questa intervista, la genitalità fra persone dello stesso sesso non ha alcuna possibilità di diventare segno donativo, ma anzi finisce col rendere l’altro un oggetto sessuale, volenti o nolenti, per tutti i motivi che abbiamo già spiegato, legati all’ordine inscritto nella nostra carne.

La Storia, anche quella della Chiesa, è piena di testimonianze di santi amici che hanno condiviso vita, progetti, passioni, e persino la morte, insieme, fianco a fianco fino alla fine.  E sfido chiunque a dire che quello non fosse amore o che valesse meno perché non c’era la dimensione genitale.

È difficile costruire amicizie così, lo so, ma d’altra parte anche trovare moglie e marito è molto più difficile di quanto il mondo porti a credere.

È amare che è difficile, quando lo si fa davvero. Di più: è da Dio.

Perché le nostre ferite ci rendono schiavi, e ci sono pulsioni dentro di noi che agiscono al di là delle intenzioni che avremmo, portandoci in certi momenti a usare l’altro al di là di ciò che vorremmo; un’esperienza di cui lo stesso San Paolo in primis ha fatto esperienza: Faccio il male che non voglio e non faccio il bene che voglio (Rm 7,19).

Tuttavia fare il Bene, amare davvero, è possibile. O Cristo non ce l’avrebbe chiesto.

Se smettessimo di sprecare tutte le nostre energie per trovare modi di manipolare Dio in modo da ‘fargli fare’ quello che noi abbiamo giudicato buono per noi e ci preoccupassimo di capire cosa Lui ha preparato di buono per noi, chiedendoGli di insegnarci ad amare così, forse quel senso di frustrazione e risentimento che molti sentono rispetto alla Chiesa verrebbe meno. E potremmo finalmente fare esperienza della gratitudine verso un Dio che ci ha fatti per gustare cose molto più grandi di quelle che la nostra piccola mente avrebbe mai potuto immaginare.

Un pezzo di paradiso già su questa terra.


P.S.

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martedì 5 luglio 2022

UOMINI FRA GLI UOMINI: LA PASTORALE CHE VORREI - Terza parte dell'intervista mai pubblicata di Gionata, sul sinodo tedesco e le proposte di accompagnamento delle persone omosessuali



Dopo la prima parte sulla morale sessuale nella Chiesa, e la seconda sulla visione dell'omosessualità, pubblichiamo oggi la risposta a una domanda di attualità: un commento sulle conclusioni raggiunte dal sinodo in Germania, in aperto contrasto con Roma. Con una proposta alternativa a tutte le possibili "pastorali omosessuali". 

Come giudichi le conclusioni a cui è giunto il percorso sinodale tedesco?

Il motivo per cui i vescovi tedeschi siano da sempre così “accalorati” , per così dire, nel difendere una morale sessuale meno “rigida” in tema di omosessualità (e non solo) posso solo immaginarli a partire dall’esperienza che ho della Chiesa italiana: in genere chi è di questo avviso o è ingenuo e non sa di che parla, o è in cattiva fede. I primi avendo visto nel tempo molti omosessuali soffrire per la loro condizione, e non avendo strumenti per capire di cosa l’attrazione omosessuale sia segno, si sono convinti che tale sofferenza sarebbe venuta meno semplicemente privando questi figli della bellezza di una chiamata alla castità. Quasi come se, in quanto “diversi”, non fossero in grado di rispondere alla chiamata d’Amore autentico che Dio fa ad ogni uomo o donna sulla terra.

I secondi… be’ direi che è già tristemente chiaro: esiste un sommerso (e nemmeno così tanto sommerso) di sacerdoti e vescovi che hanno iniziato il loro percorso all’interno della Chiesa mal guidati, o che fin da principio ambivano solo a fare carriera per comodità e opportunismo. Tali persone spesso conducono una doppia vita in maniera più o meno palese, non solo per debolezza, come chiunque sarebbe in grado di capire (ogni sacerdote è prima di tutto un uomo e in quanto tale soggetto a cadute), ma per scelta consapevole. Scelta alla quale cercano di portare quante più persone possibili, insegnando una dottrina diversa da quella del Magistero, dove la castità non è contemplata e i rapporti omosessuali sono equivalenti a quelli fra uomo e donna vissuti secondo natura. Il loro desiderio è normalizzare una situazione che in questo modo renderebbe meno grave il loro costante tradimento della promessa che hanno formalmente fatto davanti a Dio.

Diverso è il caso di quei tanti sacerdoti feriti che non avendo mai potuto trovare un sostengo valido nei loro superiori o nei confratelli, sono diventati vittime della propria fragilità e ricadono regolarmente nel sesso compulsivo, con uomini o donne, restando tuttavia coscienti del fatto che questo sia un male. Questi combattono la loro personale battaglia per la santità nel silenzio e con fatica, e non smettono di annunciare la Verità a tutti quelli che sono loro affidati, anche se loro stessi non sono sempre in grado di vivere quelle Verità.

Tuttavia, nel caso specifico della Chiesa Tedesca le conclusioni a cui il sinodo è giunto fanno purtroppo optare più per la seconda opzione che per la prima. Basti pensare che nel documento finale si sostiene che, fra le cause che avrebbero portato a un aumento dei casi di abusi sui minori, ci sarebbe proprio la stessa morale sessuale cattolica, che in quanto “troppo rigida” e castrante favorirebbe comportamenti disordinati “di rigetto”, per così dire. Quindi, si deduce, che la soluzione dovrebbe essere un ammorbidimento di tale morale.

Be’, pensare che rendere la morale sessuale più “permissiva”, possa fare diminuire gli abusi, è come pensare di combattere l’aumento degli omicidi passionali depenalizzando le pene previste per le violenze domestiche: un non-senso.

 

Inoltre la tesi secondo cui sarebbe la repressione sessuale (o presunta tale) che genera la pedofilia, viene ampiamente disconfermata dal fatto che statisticamente il maggior numero di abusi sui minori avvengano in famiglia, ad opera di uomini sposati che pertanto non hanno certo i supposti problemi di “repressione” a giustificarne il comportamento.

Sulla questione mi permetto di citare un articolo che ho trovato molto interessante di Michael Galster, presidente dell’Associazione Genitori e Amici Persone Omosessuali (AGAPO), in cui viene commentato l’impianto argomentativo del documento e il fatto che venga citato a sostegno di questa strampalata teoria il filosofo Michel Foucalt, aperto sostenitore dei rapporti sessuali fra bambini e adulti:


Nel Position paper [del sinodo] il complesso tematico della sessualità e delle relazioni di potere, così come il relativo lavoro del filosofo francese Michel Foucault, giocano un ruolo centrale; di quest’ultimo il sistema di pensiero viene ampiamente citato come buon esempio nella cultura attuale.

 

In tutto ciò, però, sfugge agli autori il fatto che lo stesso Foucault dagli anni ’60 fino agli anni ’80 e ’90 considerava ineccepibili sul piano scientifico gli atti sessuali tra adulti e bambini. Inoltre, a livello politico, insieme alla maggior parte degli intellettuali d’avanguardia di quell’epoca in Francia (Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Gilles Deleuze, Jacque Langue e altri), propugnava l’abbassamento dell’età del consenso agli atti sessuali a 12 anni. Come può accadere una simile cosa? Si tratta solamente di una svista da parte degli Addetti alla prevenzione della Conferenza episcopale tedesca? 

(Il resto dell’articolo qui)

 

Ecco, se chi dovrebbe parlare di una pastorale per le persone omosessuali ha simili riferimenti, direi che questo è sufficiente a stabilire la credibilità della Chiesa tedesca e la natura pretestuosa dei suoi ragionamenti “acrobatici”, per giustificare qualcosa che evidentemente non trova alcun appiglio teologico o antropologico per essere giustificato. Inoltre chi bazzica gli ambienti clericali sa perfettamente che la conferenza episcopale tedesca è estremamente potente all’interno della Chiesa in forza della sua ricchezza, e che per questo da anni minaccia uno scisma da Roma su queste questioni, facendo leva sul suo peso “economico”.

 

Ma grazie a Dio, noi crediamo che la Verità non dipenda né dagli appoggi politici, né dalla maggioranza di chi la riconosce: essa esiste in Cristo, al di là di noi, e resterebbe tale, anche se tutto il mondo la rinnegasse.

 

In ogni caso, al di là delle discutibili riflessioni della Chiesa tedesca, a mio parere il problema di fondo di chi, anche in buona fede, affronta la questione della pastorale per le persone omosessuali, sta proprio nel fatto di considerare queste persone bisognose di una pastorale ad hoc. Come se fossero diverse dalle altre e quindi bisognose di cure o attenzioni speciali.

 

Perché io dovrei avere bisogno di una pastorale a parte? Non sono io forse un uomo come gli altri? Non ho la stessa chiamata alla santità, la stessa immagine di Dio in me, la stessa chiamata alla paternità e complementarietà di qualsiasi altro uomo non sposato? E allora perché per me bisognerebbe valutare delle “regole” diverse, come se diversa fosse la mia chiamata all’amore? È un po’ come se mi dicessero: “Dio chiede a tutti di imparare ad amare senza possedere, anche nella sessualità, ma tu non ce la puoi fare. Quindi per te facciamo così: basta che non fai troppo sesso in giro e lo fai solo con una persona alla volta, in una relazione il più stabile possibile, finché dura”.

 

Come è possibile che nessuno si renda conto di quanto sia svilente questa visione della persona? Manca lo scopo, manca la prospettiva, manca lo sguardo alto di Dio che chiama a fare cose grandi. Manca una reale visione dell’essere umano.

 

Lo scopo di una pastorale vera non dovrebbe essere quello di trovare un modo per farci passare il tempo su questa terra senza fare troppo male a nessuno, ma dovrebbe essere quello di avvicinarci a Cristo, per imparare da Lui come fare il Bene, quello vero: dare la vita su questa terra per le cose che sono del Cielo.

 

Questa visione della pastorale omosessuale differenziata svilisce chi vive queste pulsioni perché priva le persone con attrazione omosessuale della possibilità di diventare uomini e donne adulti, togliendo loro la responsabilità della propria vita. Come farebbe una mamma troppo apprensiva che permette che il figlio non vada più a scuola perché “lì lo trattano male”, impedendogli così di affrontare la fatica del conflitto e di scoprire le proprie risorse, e rendendolo per sempre bisognoso di qualcuno che prenda le sue difese per lui.

 

Non avendo per decenni mai parlato adeguatamente di omosessualità nella Chiesa e nelle singole comunità – per i motivi di cui abbiamo già detto – anche chi avrebbe voluto interessarsi della questione, oggi non ha a disposizione nessun’altra lettura se non quella che il mondo grida da tutte le parti. E cioè che noi nasciamo così. Da qui l’equivoco: se gli omosessuali nascono omosessuali, vuol dire che essi sono così “di natura”, e una natura diversa deve prevedere regole diverse. E così abbiamo permesso a una moda di diventare più importante della parola di Dio.

 

Ma questo, piaccia o no è falso. Biologicamente nessun uomo o donna omosessuale e distinguibile da un altro uomo o donna eterosessuale. Perciò anche chi ha attrazione per lo stesso sesso, deve rientrare nel medesimo ordine naturale raccontato dalla Genesi. Io non sono “un omosessuale”: sono solo un uomo ferito nella sua identità maschile che ha sviluppato un’attrazione omosessuale per riparare a quella ferita. Un tentativo paragonabile a quello di chi usa il sesso con le donne per fare esperienza di una forza che non sa usare in altro modo, o a chi non sa vivere senza una fidanzata-mamma che gli tenga la mano in ogni circostanza, salvo poi non riuscire mai a contrapporsi alle sue decisioni; o a chi ha bisogno di masturbarsi tutti i giorni per avere la sensazione di tenere il controllo su qualcosa in una vita di frustrazioni; o a chi deve passare le ore in palestra per corrispondere a un’immagine idealizzata di sé dal momento che non ha un rapporto sereno con il proprio corpo; o a chi sa urlare e sbraitare solo con i più deboli, perché di fronte a chi gli è pari si sente come un bambino, ecc. Ecc.

 

L’omosessualità è solo uno di tutti questi sintomi possibili che sono segno di una ferita dell’identità maschile (ma la cosa vale specularmente per quella femminile) che oggi è condivisa dal novanta per cento degli uomini in circolazione.

 

Continuare a chiedersi perciò come e quanto ammettere o no rapporti sessuali omosessuali più o meno fedeli (se andiamo al nocciolo, la questione della pastorale omosessuale il più delle volte si riduce a questo), significa perdere infinite energie dietro a un problema che non è un problema, allontanando chi ha attrazione omosessuale dal cuore della questione: la ricerca di quel mondo a cui guarda con mistero e paura, il mondo da cui proviene e che non conosce. quello degli uomini per gli uomini, e quello delle donne, per le donne.

 

Io sogno il momento in cui qualcuno capirà che non serve una pastorale per le persone omosessuali, ma una pastorale per gli uomini e una per le donne. Una pastorale che restituisca uomo e donna a sé stessi, in un mondo occidentale in cui tutti noi siamo stati privati della nostra propria natura. Sogno una pastorale dove chi ha attrazione omosessuale cammini insieme a chi non ce l’ha, per fare esperienza di quella identità comune che non ha mai creduto di possedere: una pastorale dove attraverso l’amicizia fraterna, libera, profonda, e non erotizzata con persone del proprio sesso, ciascuno possa fare esperienza dell’unica verità che tutti noi cerchiamo da sempre: tu sei come me. Io sono come te. Insieme, forti dell’amicizia l’uno dell’altro, camminiamo verso Cristo.

 

Restituire la centralità di valore all’amicizia è, in effetti, ciò che risponde al bisogno vero del cuore di ogni persona, omosessuale e non. E non certo fornirle delle scappatoie ‘legal-teologiche’ per autorizzarla a fare sesso quando vuole e con chi vuole.

 

Ma di questo magari riparleremo.


(3 -  continua)


P.S.

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