Oggi vorrei rispondere alla
seconda accusa che i miei detrattori mi fanno per screditare la mia competenza quando
parlo di omosessualità fuori dai soliti schemi: io non sono laureato in psicologia (sulla prima: io sono cattolico, ho già parlato nel
mio post precedente).
Comincio col dire che sì, è vero.
Mea culpa: io non sono uno psicologo,
né uno psicoterapeuta né uno psichiatra. Ma basta questo a dire che non posso
parlare?
Prendiamo un esempio concreto: forse
qualcuno di voi ricorda il film “L’olio di Lorenzo”, nel quale vengono
raccontate le vicende (vere!) di Lorenzo Odone, un bambino di cinque anni affetto da Adrenoleucodistrofia, una malattia degenerativa
del sistema nervoso per la quale gli vengono pronosticati due anni di vita. I
genitori, un’economista e una casalinga, animati dal desiderio di salvare il
figlio, e di fronte all’assenza di interesse per la ricerca su questo disturbo
raro, decidono di fare l’impossibile: iniziano a studiare i testi di medicina
per elaborare loro una cura in modo empirico. E ci riescono. Una cura che
blocca la degenerazione della malattia, ma non ripara i danni già conseguiti. E
tuttavia un miracolo i cui effetti ricadranno su migliaia di bambini. Lorenzo
morirà nel 2008 a trent’anni.
Ed ecco l’esempio tipico: due
persone qualsiasi, senza una laurea in medicina, in chimica, biologia o
farmacologia, senza alcuna competenza in materia, insomma, o nulla che la attesti
ufficialmente, fanno quello che non erano riusciti a fare migliaia di
ricercatori competenti prima di loro.
Chi potrebbe dire loro oggi che non sono abilitati a parlare?
Ora, lungi da me ergermi a tanto
(e per favore Gayburg & Company,
adesso non andate in giro dicendo che “Giorgio Ponte paragona l’omosessualità a
una malattia neurologica”: sarebbe offensivo della vostra intelligenza), io non
sono qui per “guarire” nessuno, poiché ritengo che la vera guarigione non sia
dall’attrazione per lo stesso sesso, ma da una visione distorta e incompleta di
sé stessi che impedisce la vita molto più del semplice sintomo superficiale
della pulsione. Chi ha tendenze omosessuali spesso ha molti più problemi a
livello relazionale, emotivo, e di approccio alla vita di quelli che potrebbe avere
sul piano unicamente sessuale. E non perché “il mondo ci discrimina perché
siamo omosessuali” e quindi soffriamo. Il problema è precedente all’omosessualità,
ed è insito in noi, nella nostra storia. Ma di questo parleremo ancora.
Ciò che conta è che il caso dei
Signori Odone lascia spazio almeno a un legittimo dubbio: può l’esperienza
personale e la competenza acquisita “sul campo” abilitare in qualche misura a
parlare su un dato tema?
Io dico di sì. Fatto salvo che,
chi la pensa diversamente, non è certo obbligato ad ascoltarmi o continuare a
leggermi.
Ed ecco qual è la mia esperienza
diretta, da “paziente”, e da persona che si fa domande e che ha sperimentato su
di sé e visto negli altri ciò che propone; quella in virtù della quale mi sento
in diritto di parlare.
E scusatemi se sarò lungo.
La prima terapia che feci attorno
agli otto anni, quando faticavo a percepirmi come maschio (sintomo abbastanza
diffuso nei bambini che hanno tendenze pre-omosessuali), fu con una psicologa
che, per quanto molto preparata sul piano teorico (ha scritto fior fiori di
libri sull’affettività), non aveva in sé nessuna capacità empatica. Dopo due
anni l’esperienza risultò fallimentare. Di essa non ricordo nulla degno di
nota. Tuttavia a undici anni, quando già l’attrazione per lo stesso sesso si
era manifestata, mi ritrovai a scrivere un tema sull’argomento, nel quale già
allora collegavo in maniera chiara le pulsioni omosessuali a un problema di
relazione con la figura paterna. Era una visione parziale della questione (oggi
so che ci sono anche altri fattori), tuttavia mi ha sempre stupito nel tempo la
lucidità con cui già allora avessi messo in relazione le due cose, in un momento
in cui, per ciò che ricordo, non avevo ancora mai parlato esplicitamente di
questo con nessuno, psicologa compresa.
Dopo aver cercato disperatamente
per tutti gli anni delle medie qualcuno che mi desse delle risposte, la
Provvidenza mi mandò al liceo una suora laureata in psicologia che per oltre dieci
anni fu la mia guida spirituale, e che fu la prima con la quale parlai apertamente
di omosessualità. La suora, pur non avendo competenze specifiche sul tema, ma dotata
di estremo buon senso ed esperienza, mi aiutò a uscire dal mio vittimismo e da
una certa passività (caratteristiche, anche queste, abbastanza tipiche di chi
ha tendenze omosessuali), senza mai darmi tregua o permettermi di adagiarmi. Lei
insegnò a me a ai miei amici a crescere sul piano umano e relazionale prima
ancora che spirituale, lavorando su aspetti, oggi mi rendo conto, che erano anche
psicologici e legati alla mia ferita dell’identità. Certo non la si poteva
considerare una terapia vera e propria, sebbene l’essere quotidianamente
immersi in questo stile di vita ebbe una pervasività che credo nessuna terapia
avrebbe mai potuto avere. Quello che feci lì, mi diede l’impostazione e le basi
sulle quali ho poi costruito tutto il mio cammino di liberazione, non tanto
dall’omosessualità, quanto dalla schiavitù di una esistenza vissuta per inerzia
e con passività di fronte alle cose di cui avevo paura o che mi sembravano
impossibili da affrontare.
Gli ultimi due anni di liceo feci
invece la prima terapia vera e propria, di nascosto ai miei genitori, che mi aiutò
ad elaborare le esperienze degli abusi subiti fra i dodici e tredici anni, ai
quali allora attribuivo tutta la responsabilità del mio orientamento, ma che
scoprii in realtà ne erano stati solo un’aggravante. Fu con un noto psicanalista
di Palermo, che aveva un approccio integrato e non di psicanalisi pura.
Anche se ero andato per la mia
omosessualità, quell’uomo non cercò mai di farmi cambiare orientamento (non
ritendendolo peraltro possibile per tutti), né mai si oppose però a questa
possibilità. Con grande equilibrio cercò di capire la mia situazione e le mie
esigenze, dandomi gli strumenti per leggere quanto mi capitava e decidere io
come affrontarlo. Fu il primo a dirmi che la mia mente funzionava in un modo
talmente logico e sano, che nel corso del tempo avrei sempre trovato da solo le
soluzioni per me stesso, senza una vera necessità di sostegni terapeutici.
Tuttavia, sapendo che a restare
soli con i propri pensieri, per quanto logici, si rischia di perdersi e di
giustificarsi, all’università per quattro anni ho seguito una terapia di
impostazione analitico-transazionale che mi ha aiutato più di ogni altra ad imparare
certe tecniche pratiche per smontare i modi in cui auto-sabotavo la mia vita,
impedendomi di portare a termine qualsiasi cosa nella quale mi mettessi.
Questo approccio è in assoluto
quello che mi ha aiutato di più, essendo concentrato in modo equilibrato, tanto
sul passato, quanto sul presente; tanto sulla comprensione, quanto sulla
pratica. Ciò che del passato interessa è tanto quanto basta a capire in modo concreto come cambiare ciò che del
presente vogliamo sia diverso. Ancora oggi in alcune situazioni difficili mi
pare di sentire la voce della mia psicoterapeuta che mi dice: “Bene, lei finora
ha fatto così perché le risultava utile per alcune ragioni. Ora deve decidere
se vuole continuare così o se vuole fare qualcosa di diverso. Cosa potrebbe
cambiare, oggi?”. Ecco il grande merito di questo approccio: dopo la mia guida
spirituale, veniva qualcun altro a ridarmi la responsabilità della mia vita,
mostrandomi come potessi ragionare fuori dagli schemi, anche quelli che io
stesso mi ero imposto, cambiando sempre, in modo nuovo e costane, rispetto alle
cose che mi facevano soffrire.
Se stiamo male non tutto dipende
da noi, ma noi possiamo fare sempre qualcosa per provare a cambiare il sistema
che ci conduce a quel malessere. Non si tratta di decidere di non stare male, né
solo di capire perché stai male: si
tratta di decidere di fare qualcosa
di diverso al di là del malessere che proviamo. Perché se cambi il tuo pezzo
del sistema, di fatto cambi il sistema intero.
Pur non lavorando direttamente
sull’omosessualità, oggi mi rendo conto che quella terapia mi fece lavorare su
molti aspetti legati alla ferita da cui essa traeva origine. Mi insegnò a rispettare
quello che provavo e desideravo, senza essere schiavo delle mie emozioni, ma senza
ignorarle, imparando ad ascoltarle per capire cosa mi dicevano in profondità.
Mi aiutò a recuperare autorità su me stesso, e quindi a ritrovare un
atteggiamento maschile di fronte alle situazioni contingenti, diventando capace
di dire sempre le cose che pensavo, e di tenere fede a un impegno nonostante le
difficoltà. Quella donna in qualche modo mi restituì le redini della mia vita,
rendendomene di nuovo protagonista. Senza di lei probabilmente non sarei mai
riuscito nemmeno a finire il mio primo libro. Né a costruire mai una relazione
autentica, libera e profonda di amicizia.
Dopo l’università e l’anno di
pausa a Palermo nel quale ripresi a scrivere, mi trasferii a Milano per
diventare scrittore. Lì, quando ormai vivevo alla luce del sole la mia
omosessualità, mi innamorai spontaneamente di una donna senza che lo avessi
cercato. Decisi perciò di fare il seminario di Luca di Tolve sulle ferite
dell’affettività, per capire come potevo amarla di più. Fu Luca a farmi
scoprire (finalmente!) Nicolosi. Compresi così il valore terapeutico di molte
cose che, per caso o Provvidenza, mi ero ritrovato a vivere fino ad allora, e
per le quali mi ero spontaneamente innamorato di quella donna, proprio quando
ormai avevo smesso di contrastare la mia omosessualità.
Successivamente sono stato
seguito in un percorso di psicanalisi pura con Giancarlo Ricci, psicanalista di
grande competenza e professionalità di cui ho già parlato in passato. Allora
avevo un pregiudizio molto positivo nei confronti della psicanalisi (per i
cattolici di solito è il contrario): la ritenevo l’unica terapia in grado di
sanare le ferite più profonde di una persona.
Oggi so che questo è vero solo in parte, e che in realtà non esiste un
approccio che sia in grado da solo di rispondere a tutte le esigenze di qualcuno.
Nello specifico mi resi conto che la psicanalisi, col suo approccio molto
mentale, rischiava di rendermi solipsistico: per una persona già molto abituata
a ragionare su se stessa, il rischio è di perdersi nei propri pensieri e, come
si dice, di “cantarsela e suonarsela”. Mi resi conto che non era così che sarei
arrivato più a fondo di quanto già non avessi fatto. Io avevo bisogno di essere
aiutato a vedere oltre i miei pensieri, e non a stare lì dove ero abituato a
stare da solo. E in effetti, non solo in terapia, per tutta la mia vita non ho
fatto altro che cercare persone dallo sguardo ampio che mi aiutassero a vedere
quello che io non vedevo. Per questo lasciai la psicanalisi dopo un anno e
mezzo e andai alla ricerca di nuovi approcci più efficaci (e veloci) per me.
Questo per quanto riguarda le mie
esperienze dirette.
Ad esse vanno poi aggiunte tutte le
esperienze apprese dalla conoscenza di centinaia o forse migliaia di persone,
in anni di incontri occasionali. Capisco che questo non è certamente un “metodo
di formazione” ortodosso, o moralmente edificante, ma tant’è: fin dal liceo ho
voluto sempre conoscere le storie di quelli che incontravo anche solo per
un’ora, a prescindere dal fatto che poi ci finissi davvero a letto o no, e
questo mi ha fornito uno spaccato vastissimo sul mondo dell’omosessualità dal
quale ho appreso molte cose.
Ascoltandoli mi accorgevo di
alcune dinamiche interiori e psico-familiari ricorrenti e che andavano a
coinvolgere comportamenti in ambiti ben diversi da quelli strettamente connessi
alla sessualità: l’assertività, la capacità di assumersi responsabilità, il
confronto alla pari col mondo maschile, la capacità di reggere i conflitti in
modo costruttivo, l’essere attivi rispetto alle situazioni, una visione
equilibrata e amorevole di sé, la consapevolezza della propria forza, la
stabilità dell’umore… tutte cose in cui zoppica chiunque abbia problemi con la
propria identità maschile, con tendenze omosessuali o meno (con le dovute
differenze e sfumature). L’incontro con la Terapia Riparativa e i suoi
esponenti, non fece altro che riordinare tutte queste cose che avevo intuito e
dedotto per osservazione.
Un altro tassello della mia
formazione sui generis infatti è
stato, negli ultimi anni, la lettura degli autori che hanno affrontato il tema
dell’omosessualità come un sintomo di una ferita profonda dell’identità e non
come una variante della sessualità.
Dopo Nicolosi (clicca qui per i suoi libri) ho potuto conoscere
anche Cohen, Van Den Aardweg, Comiskey, e dai loro studi ho individuato degli
elementi terapeutici comuni, la cui efficacia ho verificato nella vita di moltissime
persone. Nonostante ciascuno di questi studiosi (alcuni dei quali hanno vissuto
sulla loro pelle ciò di cui parlano) abbia concentrato il proprio approccio su
un aspetto piuttosto che su un altro della problematica, tutti senza eccezione dimostrano come una dimensione pratico-esperienziale
e relazionale della terapia, oltre che di comprensione, è fondamentale per
aiutare chi ha problemi di identità sessuale. Per questo, immagino, l’analisi
transazionale mi fu così utile rispetto agli altri approcci: era un capire per fare.
In generale infatti, ciò che ho
visto anche per altre problematiche, è che molti approcci terapeutici aiutano
solo a capire perché si sta male, ma non sostengono per fare qualcosa di
diverso che ti aiuti a stare meglio. Invece per tutti gli autori che hanno
lavorato attivamente sul fenomeno dell’omosessualità, e con risultati, è chiaro
che capire non è sufficiente. Conta
molto di più fare esperienza, di ciò
che si è capito.
Anzi, l’esperienza sanante è
talmente efficace che potrebbe essere sufficiente a portare un beneficio, anche
senza aver compreso del tutto perché questo accada. È dalle esperienze negative
del passato che noi abbiamo maturato quelle convinzioni che ci impediscono la
vita. E quindi solo delle esperienze contrarie e positive, possono smentire
quelle convinzioni, mostrandocene la falsità.
Per fare un esempio concreto: di
solito tutti quelli che hanno delle fobie sanno, razionalmente, che esse non
sono reali. Tuttavia questa consapevolezza non impedisce loro di provare paura.
Chi ha maturato una fobia per i cani magari è perché è stato morso da uno o più
di loro. Ma è solo quando affronterà quella paura istintiva accarezzandone uno,
magari piccolino, e facendo esperienza del fatto che non lo morde, che
inconsciamente inizierà a credere, e
non più solo a sapere, che non tutti
i cani mordono. E più lo farà, più l’esperienza positiva e la convinzione nuova
che ne deriva soppianteranno quelle negative.
Ora, chi ha attrazione per lo
stesso sesso è un po’ come se avesse una fobia nei confronti di coloro che
appartengono al proprio mondo, uomini verso gli uomini e donne verso le donne,
perché per diverse ragioni non è mai riuscito a entrare in relazione autentica
e profonda con quel mondo (e quindi con sé stesso), a causa di esperienze
negative passate. Perciò per spezzare quella paura, che poi porta
all’erotizzazione, deve fare esperienze nuove proprio di ciò che più teme, in
modo da maturare una nuova convinzione su quel mondo che prima lo spaventava.
Questo è il motivo per cui molte
persone cambiano orientamento o sviluppano nuove capacità al di là di una
terapia: perché la vita le porta a fare delle esperienze terapeutiche, senza
che se ne rendano conto.
Negli ultimissimi anni sono anche
entrato in contatto con diverse realtà che aiutano dentro e fuori la Chiesa chi
ha attrazione per lo stesso sesso, alcune più utili di altre. E vedendo quello
che “il mercato” offriva, ho capito che forse potevo dare io qualcosa di diverso
agli altri, che non fosse solo la testimonianza di ciò che Dio aveva fatto per
me, ma anche una prospettiva nuova e concreta non tanto per “diventare
eterosessuali”, quanto per diventare sempre di più uomini liberi. Con la
coscienza che nessun cammino di questo tipo è mai concluso.
Così, negli ultimi due anni la
mia esperienza si è arricchita ulteriormente nel provare a dare aiuto a chi me
lo chiedeva. Vedere stare meglio uomini dalle più variegate esperienze ed età, a
partire da quei pochi consigli pratici che io avevo verificato nella mia vita,
mi ha dato conferma che quanto avevo sperimentato e appreso non è stato solo
frutto del caso e che quello che “i Nicolosi” del caso teorizzavano era vero.
Gente che non aveva ottenuto niente dopo anni di terapia, ha iniziato a stare
bene improvvisamente solo per avere fatto
qualcosa di nuovo, e non più solo per aver capito
qualcosa di “vecchio”.
In conclusione (mi scuso se oggi
sono risultato un po’ lungo) certamente io non sono laureato in psicologia, ma mi
rendo conto che su questo tema spesso, per quanto in maniera disordinata, ho
più esperienza di quella di tanti che formalmente dovrebbero saperne più di me.
E non crediate che non ne abbia cercati.
Negli ultimi mesi ho scoperto che
persino alcuni luminari del mondo della psicologia in ambito cristiano, esperti
di affettività, che hanno scritto libri sui temi della famiglia, persino
dell’amicizia, e creato opere in grado di sostenere molte persone… di
omosessualità, in questi termini, non sanno nulla. Qualcuno non aveva mai
sentito parlare di Nicolosi, qualcun altro non aveva mai voluto leggerlo, dando
per vera l’informazione negativa che ne veniva data dai suoi detrattori a
livello mondiale, in modo manipolatorio.
Questo, se da un lato mi ha
sconfortato, per il disinteresse o la mancanza di serietà, dall’altro mi ha
fatto capire ancora di più la necessità che c’è di mettere a servizio tutto
quello che so, per potere provare a dare io, quello che in generale oggi è difficile
trovare da altri. So di non essere infallibile,
ma non è una laurea che mi renderebbe certo tale, però di certo non parlo per
sentito dire, e non mi ritengo competente solo per aver letto qualche libro. Né
tuttavia sono un matto autarchico: ogni volta che posso cerco di verificare che
ciò che faccio non sia folle, e con quei pochi eroi che da psicologi hanno
ancora il coraggio di guardare all’omosessualità per ciò che è, resto in
confronto perché mi aiutino a comprendere sempre di più come sostenere chi ha
bisogno. Sono sempre alla ricerca di nuove conoscenze che aiutino prima me
stesso e poi coloro che a me si rivolgono.
Ciò di cui parlo è ciò che ho
visto vero, in me stesso e in tantissimi altri, e mi dice che quanto faccio e
dico ha un senso e un’efficacia.
In questo mi ha molto rassicurato
il parere, alcuni mesi fa, di uno psicoterapeuta con più di sessant’anni di
esperienza alle spalle nel campo (di cui non faccio il nome per evitargli
problemi), che mi ha detto che la mia non-formazione specifica poteva darmi una
libertà maggiore per leggere le situazioni ed aiutare altri, rispetto a di chi
si era formato appositamente per farlo. Oltre ad avere riconosciuto come vere,
sul piano teorico, molte delle cose che dico.
A volte potrò risultare
semplicistico, ma vedete, la verità è che molte delle cose che ci fanno bene
sono in effetti semplici, seppure non
per questo facili per chi non le ha
mai vissute. Spesso basta davvero poco per aiutare una persona con questo tipo
di fragilità.
A patto, ovviamente che si fidi.
Come l’olio di Lorenzo, che è
nato dalla mescolanza di due semplici oli alimentari: l’olio d’oliva e l’olio
di colza. A volte la soluzione è lì a portata di mano, e tutto quello di cui
abbiamo bisogno è di un amico che ci incoraggi a fare quello che ci spaventa. Ad
ascoltare quel dolore, a perdonare quel male. Con la fermezza di chi ti ama, e
sa guardare in te quello che tu non hai ancor mai visto. Duro quando serve, e
altrettanto capace di dolcezza.
A volte non abbiamo bisogno di un
laureato in psicologia, ma solo di qualcuno che ci ami davvero e in virtù di
questo amore ci sproni a non accontentarci di una vita a metà. Che ci ami oggi
per aiutarci ad essere migliori un domani. Che ci ridoni la Speranza che noi
abbiamo perduto, in una vita piena, dove il nostro cuore non giaccia
inascoltato al fondo di noi stessi. Qualcuno che sia al nostro fianco mentre
affrontiamo le cose che abbiamo paura di affrontare, che ci tenga la mano
mentre accarezziamo il “cane” della nostra intimità che non conosciamo e di cui
abbiamo timore.
E per far questo non serve una
laurea, ma solo un cuore che non si stanchi di amare, in nome di Colui che
sempre ci ha amati per primo.
E scusate se è poco.
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