mercoledì 15 novembre 2017

NON SONO PSICOLOGO, E PER QUESTO PARLO - Quando la vita fa la differenza



Oggi vorrei rispondere alla seconda accusa che i miei detrattori mi fanno per screditare la mia competenza quando parlo di omosessualità fuori dai soliti schemi: io non sono laureato in psicologia (sulla prima: io sono cattolico, ho già parlato nel mio post precedente).

Comincio col dire che sì, è vero. Mea culpa: io non sono uno psicologo, né uno psicoterapeuta né uno psichiatra. Ma basta questo a dire che non posso parlare?

Prendiamo un esempio concreto: forse qualcuno di voi ricorda il film “L’olio di Lorenzo”, nel quale vengono raccontate le vicende (vere!) di Lorenzo Odone, un bambino di cinque anni affetto da Adrenoleucodistrofia, una malattia degenerativa del sistema nervoso per la quale gli vengono pronosticati due anni di vita. I genitori, un’economista e una casalinga, animati dal desiderio di salvare il figlio, e di fronte all’assenza di interesse per la ricerca su questo disturbo raro, decidono di fare l’impossibile: iniziano a studiare i testi di medicina per elaborare loro una cura in modo empirico. E ci riescono. Una cura che blocca la degenerazione della malattia, ma non ripara i danni già conseguiti. E tuttavia un miracolo i cui effetti ricadranno su migliaia di bambini. Lorenzo morirà nel 2008 a trent’anni.

Ed ecco l’esempio tipico: due persone qualsiasi, senza una laurea in medicina, in chimica, biologia o farmacologia, senza alcuna competenza in materia, insomma, o nulla che la attesti ufficialmente, fanno quello che non erano riusciti a fare migliaia di ricercatori competenti prima di loro. Chi potrebbe dire loro oggi che non sono abilitati a parlare?

Ora, lungi da me ergermi a tanto (e per favore Gayburg & Company, adesso non andate in giro dicendo che “Giorgio Ponte paragona l’omosessualità a una malattia neurologica”: sarebbe offensivo della vostra intelligenza), io non sono qui per “guarire” nessuno, poiché ritengo che la vera guarigione non sia dall’attrazione per lo stesso sesso, ma da una visione distorta e incompleta di sé stessi che impedisce la vita molto più del semplice sintomo superficiale della pulsione. Chi ha tendenze omosessuali spesso ha molti più problemi a livello relazionale, emotivo, e di approccio alla vita di quelli che potrebbe avere sul piano unicamente sessuale. E non perché “il mondo ci discrimina perché siamo omosessuali” e quindi soffriamo. Il problema è precedente all’omosessualità, ed è insito in noi, nella nostra storia. Ma di questo parleremo ancora.

Ciò che conta è che il caso dei Signori Odone lascia spazio almeno a un legittimo dubbio: può l’esperienza personale e la competenza acquisita “sul campo” abilitare in qualche misura a parlare su un dato tema?

Io dico di sì. Fatto salvo che, chi la pensa diversamente, non è certo obbligato ad ascoltarmi o continuare a leggermi.

Ed ecco qual è la mia esperienza diretta, da “paziente”, e da persona che si fa domande e che ha sperimentato su di sé e visto negli altri ciò che propone; quella in virtù della quale mi sento in diritto di parlare.

E scusatemi se sarò lungo.

La prima terapia che feci attorno agli otto anni, quando faticavo a percepirmi come maschio (sintomo abbastanza diffuso nei bambini che hanno tendenze pre-omosessuali), fu con una psicologa che, per quanto molto preparata sul piano teorico (ha scritto fior fiori di libri sull’affettività), non aveva in sé nessuna capacità empatica. Dopo due anni l’esperienza risultò fallimentare. Di essa non ricordo nulla degno di nota. Tuttavia a undici anni, quando già l’attrazione per lo stesso sesso si era manifestata, mi ritrovai a scrivere un tema sull’argomento, nel quale già allora collegavo in maniera chiara le pulsioni omosessuali a un problema di relazione con la figura paterna. Era una visione parziale della questione (oggi so che ci sono anche altri fattori), tuttavia mi ha sempre stupito nel tempo la lucidità con cui già allora avessi messo in relazione le due cose, in un momento in cui, per ciò che ricordo, non avevo ancora mai parlato esplicitamente di questo con nessuno, psicologa compresa.

Dopo aver cercato disperatamente per tutti gli anni delle medie qualcuno che mi desse delle risposte, la Provvidenza mi mandò al liceo una suora laureata in psicologia che per oltre dieci anni fu la mia guida spirituale, e che fu la prima con la quale parlai apertamente di omosessualità. La suora, pur non avendo competenze specifiche sul tema, ma dotata di estremo buon senso ed esperienza, mi aiutò a uscire dal mio vittimismo e da una certa passività (caratteristiche, anche queste, abbastanza tipiche di chi ha tendenze omosessuali), senza mai darmi tregua o permettermi di adagiarmi. Lei insegnò a me a ai miei amici a crescere sul piano umano e relazionale prima ancora che spirituale, lavorando su aspetti, oggi mi rendo conto, che erano anche psicologici e legati alla mia ferita dell’identità. Certo non la si poteva considerare una terapia vera e propria, sebbene l’essere quotidianamente immersi in questo stile di vita ebbe una pervasività che credo nessuna terapia avrebbe mai potuto avere. Quello che feci lì, mi diede l’impostazione e le basi sulle quali ho poi costruito tutto il mio cammino di liberazione, non tanto dall’omosessualità, quanto dalla schiavitù di una esistenza vissuta per inerzia e con passività di fronte alle cose di cui avevo paura o che mi sembravano impossibili da affrontare.

Gli ultimi due anni di liceo feci invece la prima terapia vera e propria, di nascosto ai miei genitori, che mi aiutò ad elaborare le esperienze degli abusi subiti fra i dodici e tredici anni, ai quali allora attribuivo tutta la responsabilità del mio orientamento, ma che scoprii in realtà ne erano stati solo un’aggravante. Fu con un noto psicanalista di Palermo, che aveva un approccio integrato e non di psicanalisi pura.

Anche se ero andato per la mia omosessualità, quell’uomo non cercò mai di farmi cambiare orientamento (non ritendendolo peraltro possibile per tutti), né mai si oppose però a questa possibilità. Con grande equilibrio cercò di capire la mia situazione e le mie esigenze, dandomi gli strumenti per leggere quanto mi capitava e decidere io come affrontarlo. Fu il primo a dirmi che la mia mente funzionava in un modo talmente logico e sano, che nel corso del tempo avrei sempre trovato da solo le soluzioni per me stesso, senza una vera necessità di sostegni terapeutici.

Tuttavia, sapendo che a restare soli con i propri pensieri, per quanto logici, si rischia di perdersi e di giustificarsi, all’università per quattro anni ho seguito una terapia di impostazione analitico-transazionale che mi ha aiutato più di ogni altra ad imparare certe tecniche pratiche per smontare i modi in cui auto-sabotavo la mia vita, impedendomi di portare a termine qualsiasi cosa nella quale mi mettessi.

Questo approccio è in assoluto quello che mi ha aiutato di più, essendo concentrato in modo equilibrato, tanto sul passato, quanto sul presente; tanto sulla comprensione, quanto sulla pratica. Ciò che del passato interessa è tanto quanto basta a capire in modo concreto come cambiare ciò che del presente vogliamo sia diverso. Ancora oggi in alcune situazioni difficili mi pare di sentire la voce della mia psicoterapeuta che mi dice: “Bene, lei finora ha fatto così perché le risultava utile per alcune ragioni. Ora deve decidere se vuole continuare così o se vuole fare qualcosa di diverso. Cosa potrebbe cambiare, oggi?”. Ecco il grande merito di questo approccio: dopo la mia guida spirituale, veniva qualcun altro a ridarmi la responsabilità della mia vita, mostrandomi come potessi ragionare fuori dagli schemi, anche quelli che io stesso mi ero imposto, cambiando sempre, in modo nuovo e costane, rispetto alle cose che mi facevano soffrire.

Se stiamo male non tutto dipende da noi, ma noi possiamo fare sempre qualcosa per provare a cambiare il sistema che ci conduce a quel malessere. Non si tratta di decidere di non stare male, né solo di capire perché stai male: si tratta di decidere di fare qualcosa di diverso al di là del malessere che proviamo. Perché se cambi il tuo pezzo del sistema, di fatto cambi il sistema intero.

Pur non lavorando direttamente sull’omosessualità, oggi mi rendo conto che quella terapia mi fece lavorare su molti aspetti legati alla ferita da cui essa traeva origine. Mi insegnò a rispettare quello che provavo e desideravo, senza essere schiavo delle mie emozioni, ma senza ignorarle, imparando ad ascoltarle per capire cosa mi dicevano in profondità. Mi aiutò a recuperare autorità su me stesso, e quindi a ritrovare un atteggiamento maschile di fronte alle situazioni contingenti, diventando capace di dire sempre le cose che pensavo, e di tenere fede a un impegno nonostante le difficoltà. Quella donna in qualche modo mi restituì le redini della mia vita, rendendomene di nuovo protagonista. Senza di lei probabilmente non sarei mai riuscito nemmeno a finire il mio primo libro. Né a costruire mai una relazione autentica, libera e profonda di amicizia.

Dopo l’università e l’anno di pausa a Palermo nel quale ripresi a scrivere, mi trasferii a Milano per diventare scrittore. Lì, quando ormai vivevo alla luce del sole la mia omosessualità, mi innamorai spontaneamente di una donna senza che lo avessi cercato. Decisi perciò di fare il seminario di Luca di Tolve sulle ferite dell’affettività, per capire come potevo amarla di più. Fu Luca a farmi scoprire (finalmente!) Nicolosi. Compresi così il valore terapeutico di molte cose che, per caso o Provvidenza, mi ero ritrovato a vivere fino ad allora, e per le quali mi ero spontaneamente innamorato di quella donna, proprio quando ormai avevo smesso di contrastare la mia omosessualità.

Successivamente sono stato seguito in un percorso di psicanalisi pura con Giancarlo Ricci, psicanalista di grande competenza e professionalità di cui ho già parlato in passato. Allora avevo un pregiudizio molto positivo nei confronti della psicanalisi (per i cattolici di solito è il contrario): la ritenevo l’unica terapia in grado di sanare le ferite più profonde di una persona.  Oggi so che questo è vero solo in parte, e che in realtà non esiste un approccio che sia in grado da solo di rispondere a tutte le esigenze di qualcuno. Nello specifico mi resi conto che la psicanalisi, col suo approccio molto mentale, rischiava di rendermi solipsistico: per una persona già molto abituata a ragionare su se stessa, il rischio è di perdersi nei propri pensieri e, come si dice, di “cantarsela e suonarsela”. Mi resi conto che non era così che sarei arrivato più a fondo di quanto già non avessi fatto. Io avevo bisogno di essere aiutato a vedere oltre i miei pensieri, e non a stare lì dove ero abituato a stare da solo. E in effetti, non solo in terapia, per tutta la mia vita non ho fatto altro che cercare persone dallo sguardo ampio che mi aiutassero a vedere quello che io non vedevo. Per questo lasciai la psicanalisi dopo un anno e mezzo e andai alla ricerca di nuovi approcci più efficaci (e veloci) per me.

Questo per quanto riguarda le mie esperienze dirette.

Ad esse vanno poi aggiunte tutte le esperienze apprese dalla conoscenza di centinaia o forse migliaia di persone, in anni di incontri occasionali. Capisco che questo non è certamente un “metodo di formazione” ortodosso, o moralmente edificante, ma tant’è: fin dal liceo ho voluto sempre conoscere le storie di quelli che incontravo anche solo per un’ora, a prescindere dal fatto che poi ci finissi davvero a letto o no, e questo mi ha fornito uno spaccato vastissimo sul mondo dell’omosessualità dal quale ho appreso molte cose.

Ascoltandoli mi accorgevo di alcune dinamiche interiori e psico-familiari ricorrenti e che andavano a coinvolgere comportamenti in ambiti ben diversi da quelli strettamente connessi alla sessualità: l’assertività, la capacità di assumersi responsabilità, il confronto alla pari col mondo maschile, la capacità di reggere i conflitti in modo costruttivo, l’essere attivi rispetto alle situazioni, una visione equilibrata e amorevole di sé, la consapevolezza della propria forza, la stabilità dell’umore… tutte cose in cui zoppica chiunque abbia problemi con la propria identità maschile, con tendenze omosessuali o meno (con le dovute differenze e sfumature). L’incontro con la Terapia Riparativa e i suoi esponenti, non fece altro che riordinare tutte queste cose che avevo intuito e dedotto per osservazione.

Un altro tassello della mia formazione sui generis infatti è stato, negli ultimi anni, la lettura degli autori che hanno affrontato il tema dell’omosessualità come un sintomo di una ferita profonda dell’identità e non come una variante della sessualità.

Dopo Nicolosi (clicca qui per i suoi libri) ho potuto conoscere anche Cohen, Van Den Aardweg, Comiskey, e dai loro studi ho individuato degli elementi terapeutici comuni, la cui efficacia ho verificato nella vita di moltissime persone. Nonostante ciascuno di questi studiosi (alcuni dei quali hanno vissuto sulla loro pelle ciò di cui parlano) abbia concentrato il proprio approccio su un aspetto piuttosto che su un altro della problematica, tutti senza eccezione dimostrano come una dimensione pratico-esperienziale e relazionale della terapia, oltre che di comprensione, è fondamentale per aiutare chi ha problemi di identità sessuale. Per questo, immagino, l’analisi transazionale mi fu così utile rispetto agli altri approcci: era un capire per fare.

In generale infatti, ciò che ho visto anche per altre problematiche, è che molti approcci terapeutici aiutano solo a capire perché si sta male, ma non sostengono per fare qualcosa di diverso che ti aiuti a stare meglio. Invece per tutti gli autori che hanno lavorato attivamente sul fenomeno dell’omosessualità, e con risultati, è chiaro che capire non è sufficiente. Conta molto di più fare esperienza, di ciò che si è capito.

Anzi, l’esperienza sanante è talmente efficace che potrebbe essere sufficiente a portare un beneficio, anche senza aver compreso del tutto perché questo accada. È dalle esperienze negative del passato che noi abbiamo maturato quelle convinzioni che ci impediscono la vita. E quindi solo delle esperienze contrarie e positive, possono smentire quelle convinzioni, mostrandocene la falsità.

Per fare un esempio concreto: di solito tutti quelli che hanno delle fobie sanno, razionalmente, che esse non sono reali. Tuttavia questa consapevolezza non impedisce loro di provare paura. Chi ha maturato una fobia per i cani magari è perché è stato morso da uno o più di loro. Ma è solo quando affronterà quella paura istintiva accarezzandone uno, magari piccolino, e facendo esperienza del fatto che non lo morde, che inconsciamente inizierà a credere, e non più solo a sapere, che non tutti i cani mordono. E più lo farà, più l’esperienza positiva e la convinzione nuova che ne deriva soppianteranno quelle negative.

Ora, chi ha attrazione per lo stesso sesso è un po’ come se avesse una fobia nei confronti di coloro che appartengono al proprio mondo, uomini verso gli uomini e donne verso le donne, perché per diverse ragioni non è mai riuscito a entrare in relazione autentica e profonda con quel mondo (e quindi con sé stesso), a causa di esperienze negative passate. Perciò per spezzare quella paura, che poi porta all’erotizzazione, deve fare esperienze nuove proprio di ciò che più teme, in modo da maturare una nuova convinzione su quel mondo che prima lo spaventava.

Questo è il motivo per cui molte persone cambiano orientamento o sviluppano nuove capacità al di là di una terapia: perché la vita le porta a fare delle esperienze terapeutiche, senza che se ne rendano conto.

Negli ultimissimi anni sono anche entrato in contatto con diverse realtà che aiutano dentro e fuori la Chiesa chi ha attrazione per lo stesso sesso, alcune più utili di altre. E vedendo quello che “il mercato” offriva, ho capito che forse potevo dare io qualcosa di diverso agli altri, che non fosse solo la testimonianza di ciò che Dio aveva fatto per me, ma anche una prospettiva nuova e concreta non tanto per “diventare eterosessuali”, quanto per diventare sempre di più uomini liberi. Con la coscienza che nessun cammino di questo tipo è mai concluso.

Così, negli ultimi due anni la mia esperienza si è arricchita ulteriormente nel provare a dare aiuto a chi me lo chiedeva. Vedere stare meglio uomini dalle più variegate esperienze ed età, a partire da quei pochi consigli pratici che io avevo verificato nella mia vita, mi ha dato conferma che quanto avevo sperimentato e appreso non è stato solo frutto del caso e che quello che “i Nicolosi” del caso teorizzavano era vero. Gente che non aveva ottenuto niente dopo anni di terapia, ha iniziato a stare bene improvvisamente solo per avere fatto qualcosa di nuovo, e non più solo per aver capito qualcosa di “vecchio”.

In conclusione (mi scuso se oggi sono risultato un po’ lungo) certamente io non sono laureato in psicologia, ma mi rendo conto che su questo tema spesso, per quanto in maniera disordinata, ho più esperienza di quella di tanti che formalmente dovrebbero saperne più di me. E non crediate che non ne abbia cercati.

Negli ultimi mesi ho scoperto che persino alcuni luminari del mondo della psicologia in ambito cristiano, esperti di affettività, che hanno scritto libri sui temi della famiglia, persino dell’amicizia, e creato opere in grado di sostenere molte persone… di omosessualità, in questi termini, non sanno nulla. Qualcuno non aveva mai sentito parlare di Nicolosi, qualcun altro non aveva mai voluto leggerlo, dando per vera l’informazione negativa che ne veniva data dai suoi detrattori a livello mondiale, in modo manipolatorio.

Questo, se da un lato mi ha sconfortato, per il disinteresse o la mancanza di serietà, dall’altro mi ha fatto capire ancora di più la necessità che c’è di mettere a servizio tutto quello che so, per potere provare a dare io, quello che in generale oggi è difficile trovare da altri.  So di non essere infallibile, ma non è una laurea che mi renderebbe certo tale, però di certo non parlo per sentito dire, e non mi ritengo competente solo per aver letto qualche libro. Né tuttavia sono un matto autarchico: ogni volta che posso cerco di verificare che ciò che faccio non sia folle, e con quei pochi eroi che da psicologi hanno ancora il coraggio di guardare all’omosessualità per ciò che è, resto in confronto perché mi aiutino a comprendere sempre di più come sostenere chi ha bisogno. Sono sempre alla ricerca di nuove conoscenze che aiutino prima me stesso e poi coloro che a me si rivolgono.

Ciò di cui parlo è ciò che ho visto vero, in me stesso e in tantissimi altri, e mi dice che quanto faccio e dico ha un senso e un’efficacia.

In questo mi ha molto rassicurato il parere, alcuni mesi fa, di uno psicoterapeuta con più di sessant’anni di esperienza alle spalle nel campo (di cui non faccio il nome per evitargli problemi), che mi ha detto che la mia non-formazione specifica poteva darmi una libertà maggiore per leggere le situazioni ed aiutare altri, rispetto a di chi si era formato appositamente per farlo. Oltre ad avere riconosciuto come vere, sul piano teorico, molte delle cose che dico.

A volte potrò risultare semplicistico, ma vedete, la verità è che molte delle cose che ci fanno bene sono in effetti semplici, seppure non per questo facili per chi non le ha mai vissute. Spesso basta davvero poco per aiutare una persona con questo tipo di fragilità.

A patto, ovviamente che si fidi.

Come l’olio di Lorenzo, che è nato dalla mescolanza di due semplici oli alimentari: l’olio d’oliva e l’olio di colza. A volte la soluzione è lì a portata di mano, e tutto quello di cui abbiamo bisogno è di un amico che ci incoraggi a fare quello che ci spaventa. Ad ascoltare quel dolore, a perdonare quel male. Con la fermezza di chi ti ama, e sa guardare in te quello che tu non hai ancor mai visto. Duro quando serve, e altrettanto capace di dolcezza.

A volte non abbiamo bisogno di un laureato in psicologia, ma solo di qualcuno che ci ami davvero e in virtù di questo amore ci sproni a non accontentarci di una vita a metà. Che ci ami oggi per aiutarci ad essere migliori un domani. Che ci ridoni la Speranza che noi abbiamo perduto, in una vita piena, dove il nostro cuore non giaccia inascoltato al fondo di noi stessi. Qualcuno che sia al nostro fianco mentre affrontiamo le cose che abbiamo paura di affrontare, che ci tenga la mano mentre accarezziamo il “cane” della nostra intimità che non conosciamo e di cui abbiamo timore.

E per far questo non serve una laurea, ma solo un cuore che non si stanchi di amare, in nome di Colui che sempre ci ha amati per primo.

E scusate se è poco.

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