Nel 2011, per il corso di Alta Formazione "Il Piacere della Scrittura", dell'Università Cattolica, mi furono richiesti cinque racconti brevi, dei quali uno sarebbe poi stato pubblicato nell'antologia finale "Chi semina racconta", edita da Vita e Pensiero. Questo è il racconto che fu scelto. In occasione del Natale, lo regalo a voi.
LA CANTILENA - Un racconto di Giorgio Ponte
Abbiamo
camminato tanto questa mattina. Non c’è il sole. Sento freddo e l’odore di umido
mi invade le narici. Nebbia, o come mi ha detto lei che si chiama.
Siamo state in
piedi. Ora da un po’ ci hanno fatto sedere.
Sudore.
È
la prima cosa che avverto.
E
paura.
Mia madre mi
tiene la mano. Sento le sue dita stringersi attorno alle mie.
Ha paura anche
lei.
È scomoda la
panca. Di legno. Con l’altra mano ne afferro il bordo e sento la pelle
grattare.
Le
voci mi avvolgono in un guscio ovattato. Mormorano, seguendo gli altoparlanti.
La cantilena che ci accompagna da sei giorni, ormai. La cantilena infinita.
Quella che ci ha condotto qui.
È
una strana parola, cantilena.
Somiglia a
catena.
A un tratto mi
rendo conto che è proprio questo, questa cantilena. Una catena. Un legame con
la speranza. L’ultimo.
Mia
madre mi dice di stare tranquilla, di non aver paura. Di affidarmi a Lei.
Ma
sono io che vorrei dirle di non aver paura. Perché io sto bene. Sono solo
stanca. E non capisco, non capisco proprio perché lei si faccia questo.
Si
porta la mia mano alla bocca. Le sue labbra morbide sfiorano le mie dita. Sono
umide.
“Non
piangere, mamma”.
“Non
piango, tesoro. Non piango” la sua voce sorride forzatamente.
Non
sa mentire.
Ci
spostiamo di nuovo. Per l’ennesima volta. Su e poi giù, in quello che sembra un
labirinto di panche.
Accanto a me
una donna che parla una lingua dura, fredda. Cantilena anche lei. È grossa. La
sua coscia preme forte contro la mia mano, stretta al bordo. Indossa della lana
infeltrita, ispida, che mi solletica il dorso.
Anche
se non conosco la sua lingua, capisco le sue parole. Sono le stesse per tutti.
Singhiozza.
Il suo cuore sciolto in quelle sillabe dure, mi commuove più del pianto di mia
madre.
Essere tristi
è brutto, ma dover esprimere la propria tristezza con una lingua così cattiva,
è peggio. Eppure io la sento, la morbidezza del suo animo. In quel tono
piagnucolante e spezzato. In quel timbro grave.
D’istinto
abbandono il mio appiglio sicuro e le accarezzo la gamba, sotto la lana dura.
Sorrido
voltando appena il capo. Il suo pianto aumenta. Ma la voce mi dice che il suo
cuore è più leggero. Ora siamo insieme. Tutto passerà. Passerà presto.
Chissà
quale peso porta il suo corpo, quale segno indelebile, forse invisibile. È
grassa. Ma non può essere quello. Forse sta morendo. Come molti qui.
Mentre io
continuerò a vivere, comunque.
Ci
alziamo di nuovo. E stavolta qualcosa cambia. Entriamo. La stretta di mia madre
si fa più forte.
Ora
ho paura anch’io.
“Tesoro”
si è chinata. Il suo respiro familiare mi scivola sul viso, riscaldando la
pelle umida. “Tesoro” ripete. “Ora ti lascio a queste signore. Non spaventarti.
Fai quello che ti dicono. Fidati”.
Annuisco.
“Io
sono qui fuori. Ti aspetto".
Mi
bacia sulle guance e mi stringe. Come se non ci dovessimo vedere mai più. Come
se non fossimo abituate a quello.
Io, io sì. Ma
lei no. Lei non si abituerà mai.
L’abbraccio,
forte, cercando di risucchiare attraverso quel contatto il calore del suo corpo.
Quando
ci allontaniamo sento il sale pizzicarmi la bocca.
“Vai”
mi dice.
Il
suo respiro si confonde fra i gemiti che vengono da fuori. A un tratto non la
vedo più.
Qualcuno
mi prende la mano.
“Vieni
Anna” mi dice. “Rivedrai presto la mamma”.
Ho
un moto spontaneo di fastidio verso quel tono accondiscendente,
quell’espressione infantile. Ma faccio finta di niente, lo ignoro. Come al
solito.
Camminiamo
poco. L’ambiente e piccolo. Ci sono altoparlanti anche qui che trasmettono la cantilena.
Rimbomba metallica sulla pareti, stordendomi. Mi sembra di essere nel bagno di
casa. È anche umido allo stesso modo. I miei piedi scivolano un po’ a terra. È
bagnato.
Non sono sola.
L’odore della gente si è fatto più forte. Il puzzo di sudori estranei si
mescola nell’aria pesante e stantia.
Ma
qui nessuno parla. Nessuno risponde alla cantilena.
A
un tratto la mia accompagnatrice si ferma.
“Bene,
Anna” esordisce calma, mentre io tremo. “Dobbiamo toglierti i vestiti” guida la
mia mano fino a una superficie fredda, liscia. “Vuoi aiuto?”
Scuoto
la testa.
“Va
bene. Metti pure tutto qui. Resta con l’intimo. Chiama quando hai finito. Siamo
dietro la tenda. Fai presto”.
Avverto
uno spostamento d’aria. Fidandomi
di quella voce decisa, mi spoglio.
Non so cos’è
il pudore. Non l’ho mai vissuto. Eppure in questo momento mi vergogno. Come se
potessi avvertire la vergogna degli altri al di là della tenda, filtrare, fino
ad attraversarmi la pelle, diventando mia.
Resto ferma,
tremando, in mutandine e reggiseno.
Sento gli ultimi
residui del calore di mia madre scivolare via attraverso i miei piedi nudi,
sulle mattonelle del pavimento.
“Fatto”
mormoro.
Di nuovo
l’aria si sposta, stavolta la avverto su tutto il corpo.
Diverse mani
mi tirano su le braccia. Faccio un po’ fatica a lasciarle fare. Ho freddo.
Mi appoggiano
un velo addosso e guidandomi me lo avvolgono stretto intorno, sotto le ascelle.
Mi abbassano le braccia per tenerlo fermo.
“Ora togli il
resto, Anna”.
Impacciata nei
movimenti scosto i capelli e faccio scivolare una mano sulla nuca, contro la
pelle già umida, sotto il telo, per sganciare il reggiseno. Quel reggiseno che
solo un anno fa mi ero conquistata.
Devo darlo
via. Con la stessa
incertezza nei movimenti, mi sfilo le mutandine, stringendo le gambe.
“Dai pure a
me” dice la donna. “Te li ridarò dopo”.
Ora non ho più
niente.
Una mano più
morbida delle altre mi guida ferma, ma dolce.
“Di qua, Anna”
dice. “Ora siedi. Tra un po’ sarà il tuo turno”.
Mi seggo, di
nuovo, stretta nel telo.
Mentre aspetto,
istintivamente contraggo gli alluci e intreccio le dita. Quanto durerà ancora?
Accanto a me
avverto di nuovo respiri estranei, frammentati. Come i singhiozzi. Sentono
freddo anche loro.
Mi concentro
sulla cantilena. La cantilena non smette mai. Come un rumore di fondo, una nota
costante, rassicurante.
Non tremo più.
Piano, piano
le voci di prima chiamano altri nomi.
Veronica.
Anne Marie.
Susan.
Marta.
Solo donne.
Siamo tutte femmine qui.
Ad ogni nome
l’aria della tenda mi investe.
“Su-chi” il
piano della panca si solleva leggermente alla mia destra. La prossima sono io.
Improvvisamente
provo una gran paura. Una paura che non capisco.
“Anna, tocca a
te”.
“Di già?” la
domanda sfugge alle mie labbra prima che me ne accorga.
“È ora Anna”
mi risponde la voce, in un modo che non so leggere.
Le mani
morbide di prima mi aiutano ad alzarmi.
Facciamo pochi
passi. Lo spostamento d’aria mi fa ballare il ciuffo sulla fronte. Con dolcezza,
le mani sulle mie spalle mi tirano su i capelli e li fermano, alti, con una
pinza.
“Che bel nome
hai, Anna” dice la voce.
Accenno un
sorriso, voltando appena la testa. La paura mi impedisce di parlare.
“Anche la mia
mamma si chiamava così” continua lei.
Sento un nuovo
spostamento d’aria. Rumore di ganci che scorrono in alto, davanti a me. Le mani
di prima mi tengono stretta e ad esse se ne aggiungono altre due, sui miei
fianchi.
“Ora fai
attenzione” mi dice la voce. “Ci sono due gradini. È bagnato, ma non puoi
cadere. Ti teniamo noi. Tu lasciati guidare. È freddo, ma non dura tanto”.
Annuisco.
Inizio a
salire. I piedi lasciano le mattonelle lisce per appoggiarsi su qualcosa di
duro e grezzo. Sembra pietra. Un sottile strato d’acqua la ricopre. Faccio un
altro passo e salgo ancora.
Ho la
sensazione che la cantilena negli altoparlanti si faccia più forte, come
accordandosi alla paura del mio cuore.
Ora dovrei
entrare. Sono lì. Le mani mi spingono leggermente in avanti.
Ma io non
avanzo.
“No” dico.
“Che succede?”
la voce di prima è carezzevole, nessuna nota di stupore. Dev’essere abituata a
reazioni simili.
“Non posso…” la
frase mi si spezza fra i denti.
“Perché?” la
voce non ha fretta.
D’improvviso
riconosco la mia paura.
“Io no. Io
sono cieca”.
Non aggiungo altro.
Ma la voce sembra capire. Lo sento da come mi stringe: una stretta salda, ma che
somiglia a una carezza.
Sono cieca. Da
sempre.
Sono talmente abituata ad esserlo che non so immaginare di essere
altro. Mi va bene. Posso vivere così. Ho sempre vissuto così. Non ho mai voluto
credere nemmeno per un istante che potesse essere diverso.
Invece ora
spero. Irrazionalmente. Spero.
E non voglio.
Sperare mi fa
male.
Eppure mi
rendo conto di non saperne fare a meno, ora.
È la
cantilena, quella cantilena che si è insinuata nel mio cuore, senza che me ne
accorgessi.
Quella catena
che mi chiede di affidarmi.
“Fidati” mi
dice la voce, come se mi leggesse nel pensiero. “Non c’è nulla da temere. Nulla
che possa farti male”.
Il respiro mi
si calma. Annuisco. Di colpo mi rendo conto di quante donne lì fuori aspettano
che io avanzi, perché arrivi il loro turno. Capisco di non potermi fermare. Ho
già perso troppo tempo. Una strana frenesia mi prende. Non di vivere io il mio
momento, ma di permettere a loro di vivere il loro. Raddrizzo il capo, e così, nuda,
priva di tutto, lascio che le mani mi guidino.
Sollevo il
piede e lo immergo nell’acqua.
È gelida.
Sale su,
mentre il mio piede si immerge, dalla punta dell’alluce al tallone e fino al
polpaccio: è come essere immersa in un freddo tanto greve da essersi addensato fino
a diventare liquido. Però non mi fa tremare. Anzi, mi anestetizza.
È una bella
sensazione, mi rende sicura.
La mani mi invitano
a proseguire.
Immergo
l’altro piede, più avanti rispetto al primo. E mi rendo conto che il fondo si
abbassa, come in una scala sommersa.
L’acqua mi
arriva oltre le ginocchia. Il telo aderisce alle gambe. Ora il freddo è tale da
bruciarmi la pelle. Tengo la testa alta, mentre le lacrime mi graffiano il viso.
Vado avanti, accompagnata dai pianti delle donne alle mie spalle, dalla loro
cantilena di dolore.
Le sento su di
me, con me: quel popolo di donne sofferenti.
Mentre avanzo,
guidata dalle mani ferme delle mie ancelle, ho solo questo pensiero in mente: loro,
non io.
Io no. Io
posso vivere così.
Guarda loro, guarda le mie sorelle che
attendono di morire.
Non so a chi
sto parlando. Non La conosco. Eppure Le parlo come se non avessi fatto altro da
che sono nata.
Lei.
“Vuoi immergerti?”
la voce dolce mormora alla mia destra.
No, vorrei
dire.
Poi l’odore di
mia madre mi riempie le narici, come se fosse qui, accanto a me, in questo momento.
“Sì” rispondo.
Per te mamma. Lo
faccio per te.
Basta che
finisca presto.
“Affidati alle
mie mani” mi dice la voce. “Lasciati andare indietro. Ti caleremo un istante
sotto e poi ti ritireremo su”.
Annuisco.
Sento il buio
ruotarmi attorno, l’acqua risucchiarmi nel suo ventre. Con un gemito svuoto i
polmoni, la cantilena scivola via dalle mie orecchie.
E sono sola.
Il buio, gelido
e denso, mi avvolge.
No. Non gelido.
Ora è caldo.
Di un tepore rassicurante, che mi fa venire voglia di addormentarmi.
Non respiro.
Non ne ho bisogno. Eppure sento un profumo. Un profumo strano, di fiori.
Resto sospesa
in quel limbo di pace, senza tempo, e a un tratto mi rendo conto di non volermene
andare.
“Lo vuoi,
Anna?” la voce dolce mi parla di nuovo. La sento vibrare attraverso il mio
corpo, nel vuoto nero e caldo che mi circonda.
“Chi sei?”
chiedo.
“Sono io”.
“Chi?” le mie
labbra non si muovono, ma la mia voce parla, nel buio. “Chi?” chiedo ancora.
Per un attimo
il suo silenzio ferma il mio cuore.
“Chi?”
imploro.
“Sono Lei”.
L’acqua sulla
mia bocca si tinge di sale.
Annegare fra le lacrime, così si dice.
Così mi sento.
Come se tutto questo nero fosse fatto solo di lacrime, di tutte le lacrime che
non ho mai pianto, prima di oggi. Le lacrime mie e delle mie sorelle, che
attendono.
“Perché?”
sento la mia voce di bambina vibrare. Quasi non la riconosco.
“Lo vuoi,
Anna?” chiede ancora Lei.
“Perché?”
piango.
“Perché te lo
stai chiedendo”.
Resto in
silenzio.
“Racconta,
Anna” la voce sorride. “Racconta ciò che hai ricevuto”.
“Perché io?” chiedo
ancora.
“Racconta ciò
che Dio ha fatto per te”.
Prima che
possa replicare vengo strappata al silenzio, la bocca mi si apre e l’aria
invadente mi gonfia il petto, stretto nel telo appiccicato alla pelle.
Sento le mani
raddrizzarmi e rimettermi in piedi, mentre vengo scossa dai singhiozzi.
“Visto? Questione
di un momento. È già passata” mi rassicura un’altra voce. “Ora ti facciamo
uscire”.
Sto
singhiozzando, ma non c’è tempo per consolarmi.
“Tranquilla. È
normale” dice solo la nuova voce. E poi mi sospinge.
Incapace di
dire qualsiasi cosa, continuo a singhiozzare, lasciando che quelle mani mi guidino
fuori dall’acqua, indietro sui miei passi, e di nuovo al posto dove ho lasciato
i vestiti.
Sono stordita,
confusa. E non capisco cosa sia successo.
Con il loro
aiuto mi rivesto più in fretta che posso, combattendo il tremolio irrefrenabile
che mi attraversa dalla testa ai piedi.
Non è freddo.
Non so cos’è.
Prima che me
renda conto, vengo asciugata alla bell’e meglio e rivestita. Qualcuno mi riconduce
all’uscita.
“Resta qui” mi
dicono. “Vado a chiamare tua madre”.
Mi fanno
appoggiare a una specie di pilone di legno e mi abbandonano, ancora in preda ai
singulti.
Resto aggrappata
a quell’ancora, smarrita, per un tempo che mi pare infinito.
Lentamente, il
respiro mi si placa. Muovo la testa a destra e a sinistra, in attesa, mentre la
cantilena negli altoparlanti si allarga, instancabile, nello spazio aperto.
La cantilena.
Finalmente
l’ascolto. Ora è nella mia lingua.
“…tu sei benedetta fra le donne, e benedetto
è il frutto del tuo seno…”.
E rispondo.
Come mi hanno insegnato.
“Santa Maria,
madre di Dio …”.
Un vento
sottile ha preso a tirare, portando il rumore delle fronde degli alberi, oltre
il gorgoglio del fiume. Inalo il profumo dell’erba e lascio che quell’odore, piano,
piano, finisca di quietare il mio cuore.
Avverto un piacevole
calore solleticarmi il viso.
Dischiudo
appena le palpebre, nel bianco che mi circonda.
Sorrido.
“Anna!” la
voce di mia madre. È alle mie spalle.
Sembra
allarmata.
Quasi sapesse.
Quasi presagisse che qualcosa è cambiato.
Mi volto e la vedo.
Per la prima
volta, fra le lacrime, io vedo mia madre.
***
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