In questi giorni sta facendo molto scalpore la notizia della nomina di un ministro dell'istruzione senza laurea, che già in passato aveva cercato di inserire la teoria del Gender nelle scuole: l'ideologia secondo la quale chiunque può scegliere la propria "natura" in modo del tutto arbitrario e scollegato dal proprio corpo, secondo la sua percezione soggettiva e senza tenere conto di qualsiasi dato di realtà. Per fare questo bisogna ovviamente partire dal presupposto che nessuna differenza sia rilevante, perché chiunque possa essere ciò che vuole in base a come si sente, maschio, femmina o "varie ed eventuali" (per chi volesse saperne di più, rimando al numero di "Alzati e Cammina" della Comunità Bethel uscito qualche tempo fa, dal titolo "Gender D-Istruzione", interamente dedicato al tema, e nel quale c'è anche una mia lunga intervista in merito). Posto che la teoria del Gender è già ovunque, a prescindere da quale sia il ministro in carica, ed essa è spesso mascherata e confusa dietro a programmi e attività antidiscriminazione sessuale, pubblico qui di seguito la storia di un ragazzo speciale che conobbi un anno fa durante una gita con i miei ragazzi: qualcuno che con le differenze e con il limite ad esse connesso doveva farci i conti tutti i giorni. E che sapeva bene che non c'è natura e identità che prescinda dal nostro corpo.
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Quest’estate accompagnando dei miei alunni in
vacanza-studio in Inghilterra, abbiamo avuto la possibilità di imbatterci in un
gruppo di spagnoli con cui condividevamo il campus. Fin qui nulla di
straordinario, se non fosse che uno di loro era affetto da nanismo. Lo
chiameremo Juan.
Ora, sarà capitato anche a voi, di fronte a
persone che hanno una disabilità evidente, di provare quel senso di imbarazzo
che oscilla tra il desiderio di fare sentire la persona a suo agio e la paura
di eccedere in attenzioni che finiscano col farla sentire commiserata. Il tutto
spesso unito a quel vergognoso pensiero che nessuno ammette mai, ma che
automaticamente si staglia nella nostra mente: poverino.
Bene, di fronte al “piccolo” quattordicenne anche
io mi sono ritrovato ad assumere questo atteggiamento.
È bastato un pomeriggio però, perché Juan mi
facesse rimangiare la mia carità pelosa.
Alla prima partita di calcio organizzata dal
campus, mentre io venivo guardato male dall’organizzatore per due miei ragazzi
che fingendo un malore avevano deciso di ritirarsi, Juan sconvolgeva tutti i
presenti col suo gioco da semiprofessionista. Il piccoletto, sfruttando la
taglia minuta, riusciva a svicolare tra le gambe degli avversari arrivando
facilmente a segnare. Persino io che di calcio non ne capisco niente sono
rimasto affascinato. Ed è così che abbiamo scoperto che Juan praticava con
successo una certa quantità di sport fra cui basket, nuoto, surf, biking e dio
solo sa cos’altro. In un attimo è diventato il leader del campus.
Insomma, poverino
un corno.
Questa storia ha a che fare ovviamente con la Diversity, tema di attualità sul
palcoscenico internazionale. Tuttavia non si può parlare di diversità senza
parlare di limite, concetto cui essa
è legata a filo doppio e che però fa storcere il naso a molti.
Perché vedete, osservando questo ragazzo nano mi
sono reso conto che ciò lo rendeva straordinario non era il fatto di
considerarsi uguale a tutti gli altri, ma proprio la coscienza di essere
diverso, e in quanto diverso, limitato. Era il limite ad avvicinarlo agli
altri, non il contrario.
Ciò che infatti rende diverso ciascuno di noi, se
da un lato ci offre delle opportunità, dall’altro inevitabilmente ce ne
preclude altre. Il punto non è battere i piedi per ciò che non possiamo fare,
ma valorizzare al massimo quello che ci è possibile.
Juan, insomma, ha capito che diverso non significa peggiore,
e questo gli ha permesso di trasformare ciò che agli occhi del mondo appariva
una debolezza, nel suo punto di forza. Tanto da non sentirsi umiliato quando
qualcuno dei suoi amici all’occorrenza gli prestava le proprie gambe portandolo
in spalla come un bambino.
Ora, agli sgoccioli di Expo, rappresentazione in
piccolo di un pianeta variegato e interconnesso, l’augurio che possiamo farci e
che la stessa consapevolezza di Juan possa essere un’eredità di questa
esperienza: le diversità, biologiche quanto culturali, arricchiscono nel
momento in cui sono rispettate e non ignorate. E questo è vero su molti fronti.
Prova ne sia il fatto che anche in un mondo del
lavoro che tende a uniformare le competenze perché ogni dipendente sia
sostituibile, le aziende che valorizzano di più le peculiarità dei singoli sono
anche quelle che rendono di più, perché sfruttano al meglio le risorse che
hanno.
D’altra parte sapere di essere stati scelti
perché siamo noi, con i nostri
limiti, ma soprattutto con i nostri pregi, costituisce un grande motivo di
gratificazione e di gratitudine per qualsiasi dipendente.
E un dipendente gratificato, si sa, è un
dipendente che lavora bene. “Piccolo” o grande che sia.
A tutti, chi ce l’ha e chi ancora no,
Buon Lavoro!
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