domenica 3 dicembre 2017

L'ESERCITO DI UOMINI SOLI - I sacerdoti e la periferia esistenziale.



Ho visto un esercito di uomini soli combattere contro nemici più grandi di loro. Li ho visti arrancare, lottare, ribellarsi e gridare con la sensazione di non avere nessuno al mondo oltre la loro fede. Li ho visti camminare ciechi, incoscienti del fatto di avere al loro fianco fratelli fragili come loro, ma che per loro potrebbero essere forza. Li ho visti incapaci di chiedere aiuto, mentre affondavano nelle trincee dell’esistenza aspettando, difendendo i figli che erano stati loro affidati, senza più forza nemmeno per reggere in mano le loro armi, mentre si prendevano i colpi dell’artiglieria, sostenendo coloro che avevano alle spalle, incoraggiandoli ad andare avanti a vivere una vita di gioia, mentre loro non potevano contare sulla consolazione di nessuno. Li ho visti convincersi che questo era dovuto, e che l’angoscia e la solitudine nella quale vivevano fossero lo scotto da pagare per avere una vita santa.

Li ho visti, esistono.

È l’esercito dei sacerdoti.

Uomini soli, periferia dell’esistenza, ignorata più di altre perché sconosciuta. Di essi non si conosce il dolore perché non se ne conosce l’intimità, e quando qualcosa di quell’universo viene fuori, è solo nelle componenti più aberranti e distorte: come un tumore che, lasciato crescere indisturbato sotto la pelle, diventa visibile all’esterno solo quando è ormai impazzito, fuori controllo, e fa ribrezzo a chiunque lo vede.

Troppo agiati per generare la compassione riservata ai poveri, troppo in salute per avere quella dei malati, troppo (ancora) rilevanti socialmente di un drogato, perché se ne giustifichino allo stesso modo le debolezze.

Da anni ho la grazia di vedere quel mondo al di là del velo delle apparenze e dei giudizi: montagne di parole che tendono a classificare l’uno come santo e l’altro come dannato, ma mai nessuno come umano. Di essi esaltiamo le doti o sottolineiamo i difetti, ma mai tolleriamo che gli uni e gli altri siano presenti nella stessa persona. Troppo asceti per essere umani, troppo peccatori per essere santi.

L’illusione è che il sacramento che portano impresso nella loro anima li trasformi in qualcosa che non sono, quasi per una specie di magia che a un tratto li renda immuni dalle difficoltà, e a motivo della quale ci scandalizziamo se non è così.

Ma fratelli, è ora che lo capiamo, non è così

PANE ABBANDONATO
Come il pane consacrato se bagnato e lasciato all’aperto non eviterà la muffa solo per essere Corpo di Cristo, né il vino che né diventa il Sangue eviterebbe di inacidirsi se lasciato all’aria, così l’uomo che diventa sacerdote non sarà immune alla “muffa” dell’esistenza, o “all’acidità” delle incombenze quotidiane se esposto a pericoli e non trattato con cura. Le leggi che lo governano sono le stesse di qualsiasi altro uomo, anche se in sé ha una presenza di Dio diversa da ogni altro.

Perciò della sua fragilità non dovremmo scandalizzarci, nemmeno quando essa arriva a toccare l’abominio, più di quanto non dovremmo fare della muffa su una particola dimenticata a marcire sotto un tappeto.

Ci fa ribrezzo? Sì.

Ci addolora? Moltissimo.

Ma la domanda è: cosa abbiamo fatto noi per evitare che quella “particola” cadesse e finisse dimenticata? Perché se abbiamo cura di riporre l’eucaristia al sicuro nel tabernacolo, dobbiamo avere la stessa attenzione e cura nel riporre i nostri sacerdoti nel “tabernacolo” della nostra comunità: perché sia un luogo sicuro, accogliente e pulito dove farli stare bene, perché tutti possano “mangiarne”.

Chi si occupa di coloro che si occupano di tutti?

Ve lo dico io: nessuno. Il più delle volte, almeno.

Badate, non sono qui né a giustificare per partito preso un clero malato di cui ho visto negli anni le molte aberrazioni segrete, né a sostenere banalità come che “per risolvere il problema della solitudine dei preti bisogna farli sposare”. Il mio discorso non è per coloro che fin da principio hanno scelto di ingannare, sé stessi, la Chiesa e (illusi!) Dio, entrando in seminario per assecondare il loro desiderio di dominio, o per avere uno stipendio fisso che gli permettesse di seguire indisturbati le proprie passioni e interessi, passando la vita dietro una scrivania a disquisire di teologia e di esegesi, o sollazzandosi in una vita mondana intervallata da qualche messa, mentre fuori il mondo muore.

Chi mi conosce sa che non ho mai avuto paura di mettermi contro né preti, né vescovi, ogni qualvolta di essi abbia visto la sostanziale cattiva fede e disonestà.

No, io sono qui per difendere tutti gli altri. Quelli che lottano, cadono e si rialzano, come tutti, ma senza il conforto che dovrebbe essere dato a tutti: qualcuno al proprio fianco che ti sostenga mentre cammini. Non da superiore o da sottoposto. Ma da pari.

NESSUNO SI LAVA I PIEDI DA SOLO
Nella nostra società fatta di isole incapaci di comunicare, i sacerdoti sono le isole più lontane, quelle che non formano arcipelaghi con nessuno e per raggiungere le quali devi affrontare le imprevedibili tempeste dell’oceano del loro cuore: barriere immense che loro stessi hanno messo su nel corso di anni, per proteggersi. Poiché, spesso fin dal seminario, gli è stato detto che la loro solitudine è necessaria alla loro vocazione, e che non può essere altrimenti.

Ma io mi chiedo: è davvero così?

Gesù ha forse mai elogiato la solitudine, tranne quando si trattava di pregare col Padre? Quando ha detto che “alcuni non si sposano per servire meglio il regno di Dio” (Mt 19,12), ha anche detto che non avrebbero mai dovuto avere amici, o vivere soli per sempre? E perché allora avrebbe individuato nella vita data per l’amicizia, la forma più grande di amore (Gv 15,13)? Non ha forse Egli stesso condiviso la sua vita con dodici amici durante tutti gli anni del suo ministero? E persino nel momento dell’abbandono, non ha beneficiato del sostegno di quell’unico amico, Giovanni, che non fuggì di fronte al suo dolore, rimanendo con sua Madre sotto la Croce? Non era forse Gesù che li mandava nel mondo “a due a due” (Lc 10, 1)? E non era ancora Lui che la notte in cui ebbe inizio la sua Passione, si preoccupò di lasciar loro detto che si lavassero i piedi “gli uni gli altri”(Gv 13,14)?

Tutto questo dice con certezza, mi pare, che nessun uomo è fatto per stare solo, sacerdoti compresi. Infatti, come si possono lavare i piedi a qualcuno che li lavi a te, se non hai nessun fratello con cui condividere la vita? Il comando è chiaro e vicendevole: “gli uni gli altri”. Cioè: c’è un tempo in cui devi servire, e uno in cui lasciarti servire; uno in cui lavare tu e uno in cui avere l’umiltà di lasciare che altri vedano la tua sporcizia, per lavarla via. Perché ci vuole più umiltà a mostrare il proprio fango sui piedi, che a togliere quello altrui. E questo è un comando impartito agli apostoli, i primi “vescovi” della storia, coloro che hanno la pienezza del sacramento sacerdotale. Perché nessuno può “lavarsi i piedi” da solo, come nessuno può solo servire. Nemmeno un vescovo, fosse anche quello di Roma.

Figuratevi i sacerdoti, quelli veri. Quelli che lottano in questo esercito silenzioso, morendo ogni giorno un po’ di più, dall’altro dei nostri pulpiti, nelle nostre parrocchie, in silenzio, col sorriso sulle labbra, mentre nessuno se ne accorge. Quelli che cadono, indeboliti da ferite mai curate seriamente, ma che nulla tolgono all’autenticità della loro vocazione. Uomini che si sono convinti che “dare la vita per gli altri”, significhi “togliersela”, la vita, come in un suicidio spirituale che nulla ha a che vedere con l’amore.

Perché quando non ami più il tuo prossimo come te stesso, ma di più, di fatto stai smettendo di amare te.

E chi non si ama davvero, non è in grado di amare fino in fondo.

Sono questi uomini che desidero difendere. Soprattutto da loro stessi, e dalla loro incapacità di lasciare che qualcuno prenda le loro difese.

Qualcuno dirà: “ci sono i vescovi! Ci pensino loro”. Ma noi non possiamo ragionare così. Perché se ci è stato detto di amare il nostro prossimo, senza distinzione su chi egli sia, il sacerdote ci è prossimo, come noi siamo prossimi a lui. Non puoi aspettare che qualcun altro lo faccia per te. Se ci sei tu lì, tu sei chiamato ad essere quella presenza di Dio. E come lui si occupa di noi, noi abbiamo la responsabilità di occuparci di lui.

Sia chiaro, non in un modo banale e passato in uso da secoli, dove il laico fa da aiutante o da servitore, da volontario per il catechismo o da uomo delle pulizie. Non in un rapporto di sudditanza, ma di fratellanza. Perché fratelli loro lo sono, come noi. Prendersene cura non vuol dire diventare delle specie di badanti. Non siamo chiamati a imboccarli o fare loro le pulizie, più di quanto non sia necessario per un qualsiasi medico che si spende senza orari, avere una donna pagata che lo faccia. Certo, averli a cuore può significare anche questo. Ma ciò che abbiamo da fare, il nutrimento che abbiamo da offrire loro è lo stesso di cui abbiamo bisogno noi. E non può essere pagato.

Si chiama Amore.

E se è vero che anche la moglie che cucina per la famiglia sta dimostrando con quel gesto il proprio amore per i figli, è vero anche che se questo restasse l’unico modo di amare, esso non produrrebbe altro che figli grassi e frustrati. Noi non viviamo solo di cucina, ma anche di intimità, di calore, dell’avere qualcuno di fronte al quale essere pienamente noi stessi e pienamente amati, con tutte le nostre fragilità.

In una parola, abbiamo bisogno di Umanità.  Qualcosa senza la quale l’amore non può esistere, e di cui nessun uomo può fare a meno, anche quando ha talmente disimparato a viverla da temerla o persino rifiutarla.

IL BAMBINO DIMENTICATO
I sacerdoti soffrono sì. E tanto. Ma spesso quel dolore non è raccolto da nessuno, non solo perché nessuno si aspetta che un sacerdote lo provi, ma anche perché la maggior parte di loro è stata formata e addestrata a non chiedere mai aiuto se non al padre spirituale, e quindi resa incapace affettivamente proprio di quella umanità che rendeva Gesù così straordinariamente Dio.

Perciò non stupitevi se offrendovi di farvi loro vicino, essi fuggiranno o vi distanzieranno. È normale. La maggior parte di loro non sa come si fa, come si esce dal ruolo. O meglio, come si unisce il ruolo alla vita, senza che da esso siano escluse parti di sé stessi. E quando non è l’incapacità, è la paura a frenarli, loro che sono sempre esposti al giudizio del mondo: troppo spesso visti come dispensatori di servizi, la gente dimentica che non sono macchine, ma persone (quante volte di fronte al parroco che si rivolge male a un’osservazione, ci chiediamo se lo fa perché essa è la centesima che riceve in un giorno? Io stesso, che pure dovrei vedere al di là, me ne dimentico, e non capisco mai la misura giusta nel mediare tra ciò che può essere giusto far notare e ciò che l’altro è in grado di sopportare).

So che non è facile. Ma nulla di quello che vale la pena è mai facile.

Spesso questi uomini sono stati educati in seminario a rispettare (spesso sopportare) un’autorità, imposta, anaffettiva, e a volte ottusa, che sta all’autorevolezza fondata sull’amore, più o meno come il padre padrone e paternalista sta al padre che si preoccupa di spiegare con dolcezza ai figli il Bene che un divieto custodisce.

Così quando sono loro a diventare rappresentanti di quell’autorità, finiscono col trincerarsi dietro ad essa per difendere sé stessi, proprio come il figlio che ha ricevuto durezza da un padre ferito, nonostante ne abbia sofferto, rischia inconsciamente di replicare quella durezza una volta diventato padre.

Ma voi non mollate, non fatevi scoraggiare. Non abbiate paura dei loro sguardi torvi, dei loro silenzi prolungati, dei loro modi freddi, dei loro abiti austeri, delle risposte secche e nervose, né accontentatevi delle parole di Luce che dal pulpito vi donano, per giustificarli in tutte queste cose: dietro tutto questo essi sono come noi. In ciascuno di questi uomini c’è un bambino bastonato che ha bisogno di essere ascoltato, ma che spesso ha ricevuto troppi schiaffi emotivi per potersi fidare. Un bambino sul cui sonno nessuno veglia; la cui testa non è mai stata accarezzata; il cui riposo è quasi considerato alla stregua di un peccato: da vivere di nascosto, temendo di essere giudicati; un bambino che a volte ha bisogno di piangere e può farlo solo in silenzio, nel segreto della sua stanza, senza qualcuno che lo abbracci quando non ce la fa più a sopportare il peso di tutto il dolore che gli si riversa addosso; che ha bisogno di sentirsi dire “va bene così, hai fatto il possibile. Ora lascia andare”.

Amateli così, come bambini. Come andrebbero amati tutti.

Come vorreste essere amati voi.

Non mollate, vi dico! Amateli di più. In ogni modo, con ogni mezzo. Anche la durezza, quando serve a riportarli sulla terra, ma senza mai dimenticare l’amore, e uno sguardo di Bene che è l’unico che salva.

Altrimenti quel bambino si sentirà colpito nuovamente e si chiuderà ancora di più dietro a quel ruolo che per molti è l’unica difesa.

E lo avrete perso. E con esso avrete perso un’occasione in più di amare davvero.

A me è successo, so cosa vuol dire avere la grazia di ricevere l’intimità di un sacerdote, e perderla per una mancanza d’amore, una durezza eccessiva, una mancanza di pazienza. Se vi capita di ricevere un dono così grande non lo sprecate. Vuol dire che Dio vi sta ritenendo degni di un grande compito.

Perché i sacerdoti non hanno bisogno (solo) del loro Vescovo o delle loro guide spirituali per essere aiutati, esattamente come un figlio non può crescere bene solo col sostegno del padre. Gesù non ha detto “amatevi come padri e figli”, ma come fratelli. Chi non ha fratelli, sperimenta la sofferenza di non avere compagni di strada, e il peso di una vita che grava solo sulle proprie spalle. Noi abbiamo bisogno di fratelli che ci siano pari.

Tutti noi. Soprattutto quando ci ritroviamo ad essere padri per qualcun altro.

UOMINI FRA GLI UOMINI
I Sacerdoti hanno bisogno di noi per sentire l’amore di Dio nella loro vita, come noi abbiamo bisogno di loro per averne la Presenza. Hanno bisogno di potersi mostrare fragili, perché in quella fragilità si manifesti tutta la potenza di Dio. Hanno bisogno di qualcuno che non li tema, per poterli amare.
E quanto è bello, quando questo accade! Che dono grande è vedere quella fragilità: l’uomo nascosto in quell’abito sacro, sacro egli stesso nel suo essere uomo!

Lo ripeto: non sprecate mai questo dono!
Quando scendono dal pulpito e scherzano, quando si permettono di donare e ricevere affetto, e persino quando si abbandonano a qualche scurrilità o leggerezza! Quanto è bello ridere con loro, parlando di cose normali, scoprirli normali e pieni di difetti come noi: quanto è liberante sapere che Dio sceglie uomini normali, per fare cose straordinarie, perché essi diventino le Sue mani. Quanto è commovente quando qualcuno di loro vi ritiene tanto degni di stima da mostrarsi bisognoso di aiuto, lui che magari tante volte è stato aiuto per voi. Quanto infonde rispetto vederli mettersi in discussione. E quanto rappacifica scoprire che tutto questo non li priva di alcuna autorevolezza, poiché nessuno di noi è degno del messaggio che porta, come l’asino che condusse Gesù all’ingresso di Gerusalemme non aveva in sé nessuna nobiltà che non venisse dal fatto di adempiere a quel compito per il Figlio di Dio, così com’era.


L’AMICIZIA, TABERNACOLO D’AMORE
Perciò oggi parlo e imploro voi che leggete e che amate la Chiesa, di guardare con occhi nuovi a questi uomini che la Chiesa sono stati chiamati a guidarla. soprattutto quelli che vi fanno arrabbiare. Vi è concesso arrabbiarvi, ma se dovete criticarli non fatelo solo perché essi non rispondono alle vostre aspettative. Fatelo se non rispondono al Vangelo, magari troppo stanchi per vedere qualcosa che a voi pare evidente; fatelo per mostrare loro il Bene che voi sapete che possono essere e che forse anche loro hanno dimenticato, o non hanno mai saputo. Fatelo senza avere la presunzione di avere ragione, perché ci sono molte cose che noi non sappiamo dietro a ogni loro scelta; fatelo con l’umiltà di sapere che alla fine, dopo che avete parlato, comunque noi siamo chiamati ad accettare quella scelta, per quanto sia nostro diritto chiederne le ragioni. Perché di quelle scelte, giuste o sbagliate che siano, essi sono gli unici che portano l’onere della responsabilità. E questo è un peso che nessuno può comprendere, se non lo vive.

Fate che essi vedano la sporcizia dei loro piedi solo perché voi siete già lì, in ginocchio, a lavarla via con amore. Fate che vedano che li amate così come sono oggi, perché quell’amore li aiuti ad essere migliori domani.

Questa è la Chiesa: siamo noi il tabernacolo d’amore nel quale questo esercito silente ha bisogno di essere custodito. È questa la strada perché ciascuno di loro alzi la testa e veda di non essere solo nella battaglia dell’esistenza, ma parte di un popolo destinato alla vittoria, perché forte ciascuno della forza degli altri, e tutti insieme di quella di Dio. E quando essi lo sperimenteranno da voi, forse saranno in grado di vivere questo con i loro confratelli: i primi che sono loro prossimi, e che più degli altri sarebbero autorizzati a porsi con loro alla pari, ma che troppo spesso tendono a non vedere come amici, ma come antagonisti da temere e schivare.

Fatelo: amateli per amore dell’umanità. Perché per ogni sacerdote che aiuterete a rialzarsi, aiuterete tutte le migliaia di uomini e donne che a lui si affidano e che da lui imparano. In quel meraviglioso gioco dell’esistenza per cui ogni nostra azione ricade in modi misteriosi su tutta la Storia, e che in termini cristiani si chiama Comunione dei Santi.

In questo tempo di crisi delle vocazioni e di grandi eresie, voi potete mostrare al mondo che essere sacerdoti non deve significare per forza vivere nella solitudine e senza legami, ma piuttosto vivere ancora di più ciò che Dio ci ha chiesto, “dare la vita per i propri amici”. Perché noi non ci muoviamo per privazione, ma solo attratti da una Bellezza e un bene maggiore: voi potete essere quella Bellezza, voi potete essere il legame che li tiene uniti a Dio.

Siate amici che danno la vita per loro, perché loro abbiano amici per cui dare la vita.


mercoledì 15 novembre 2017

NON SONO PSICOLOGO, E PER QUESTO PARLO - Quando la vita fa la differenza



Oggi vorrei rispondere alla seconda accusa che i miei detrattori mi fanno per screditare la mia competenza quando parlo di omosessualità fuori dai soliti schemi: io non sono laureato in psicologia (sulla prima: io sono cattolico, ho già parlato nel mio post precedente).

Comincio col dire che sì, è vero. Mea culpa: io non sono uno psicologo, né uno psicoterapeuta né uno psichiatra. Ma basta questo a dire che non posso parlare?

Prendiamo un esempio concreto: forse qualcuno di voi ricorda il film “L’olio di Lorenzo”, nel quale vengono raccontate le vicende (vere!) di Lorenzo Odone, un bambino di cinque anni affetto da Adrenoleucodistrofia, una malattia degenerativa del sistema nervoso per la quale gli vengono pronosticati due anni di vita. I genitori, un’economista e una casalinga, animati dal desiderio di salvare il figlio, e di fronte all’assenza di interesse per la ricerca su questo disturbo raro, decidono di fare l’impossibile: iniziano a studiare i testi di medicina per elaborare loro una cura in modo empirico. E ci riescono. Una cura che blocca la degenerazione della malattia, ma non ripara i danni già conseguiti. E tuttavia un miracolo i cui effetti ricadranno su migliaia di bambini. Lorenzo morirà nel 2008 a trent’anni.

Ed ecco l’esempio tipico: due persone qualsiasi, senza una laurea in medicina, in chimica, biologia o farmacologia, senza alcuna competenza in materia, insomma, o nulla che la attesti ufficialmente, fanno quello che non erano riusciti a fare migliaia di ricercatori competenti prima di loro. Chi potrebbe dire loro oggi che non sono abilitati a parlare?

Ora, lungi da me ergermi a tanto (e per favore Gayburg & Company, adesso non andate in giro dicendo che “Giorgio Ponte paragona l’omosessualità a una malattia neurologica”: sarebbe offensivo della vostra intelligenza), io non sono qui per “guarire” nessuno, poiché ritengo che la vera guarigione non sia dall’attrazione per lo stesso sesso, ma da una visione distorta e incompleta di sé stessi che impedisce la vita molto più del semplice sintomo superficiale della pulsione. Chi ha tendenze omosessuali spesso ha molti più problemi a livello relazionale, emotivo, e di approccio alla vita di quelli che potrebbe avere sul piano unicamente sessuale. E non perché “il mondo ci discrimina perché siamo omosessuali” e quindi soffriamo. Il problema è precedente all’omosessualità, ed è insito in noi, nella nostra storia. Ma di questo parleremo ancora.

Ciò che conta è che il caso dei Signori Odone lascia spazio almeno a un legittimo dubbio: può l’esperienza personale e la competenza acquisita “sul campo” abilitare in qualche misura a parlare su un dato tema?

Io dico di sì. Fatto salvo che, chi la pensa diversamente, non è certo obbligato ad ascoltarmi o continuare a leggermi.

Ed ecco qual è la mia esperienza diretta, da “paziente”, e da persona che si fa domande e che ha sperimentato su di sé e visto negli altri ciò che propone; quella in virtù della quale mi sento in diritto di parlare.

E scusatemi se sarò lungo.

La prima terapia che feci attorno agli otto anni, quando faticavo a percepirmi come maschio (sintomo abbastanza diffuso nei bambini che hanno tendenze pre-omosessuali), fu con una psicologa che, per quanto molto preparata sul piano teorico (ha scritto fior fiori di libri sull’affettività), non aveva in sé nessuna capacità empatica. Dopo due anni l’esperienza risultò fallimentare. Di essa non ricordo nulla degno di nota. Tuttavia a undici anni, quando già l’attrazione per lo stesso sesso si era manifestata, mi ritrovai a scrivere un tema sull’argomento, nel quale già allora collegavo in maniera chiara le pulsioni omosessuali a un problema di relazione con la figura paterna. Era una visione parziale della questione (oggi so che ci sono anche altri fattori), tuttavia mi ha sempre stupito nel tempo la lucidità con cui già allora avessi messo in relazione le due cose, in un momento in cui, per ciò che ricordo, non avevo ancora mai parlato esplicitamente di questo con nessuno, psicologa compresa.

Dopo aver cercato disperatamente per tutti gli anni delle medie qualcuno che mi desse delle risposte, la Provvidenza mi mandò al liceo una suora laureata in psicologia che per oltre dieci anni fu la mia guida spirituale, e che fu la prima con la quale parlai apertamente di omosessualità. La suora, pur non avendo competenze specifiche sul tema, ma dotata di estremo buon senso ed esperienza, mi aiutò a uscire dal mio vittimismo e da una certa passività (caratteristiche, anche queste, abbastanza tipiche di chi ha tendenze omosessuali), senza mai darmi tregua o permettermi di adagiarmi. Lei insegnò a me a ai miei amici a crescere sul piano umano e relazionale prima ancora che spirituale, lavorando su aspetti, oggi mi rendo conto, che erano anche psicologici e legati alla mia ferita dell’identità. Certo non la si poteva considerare una terapia vera e propria, sebbene l’essere quotidianamente immersi in questo stile di vita ebbe una pervasività che credo nessuna terapia avrebbe mai potuto avere. Quello che feci lì, mi diede l’impostazione e le basi sulle quali ho poi costruito tutto il mio cammino di liberazione, non tanto dall’omosessualità, quanto dalla schiavitù di una esistenza vissuta per inerzia e con passività di fronte alle cose di cui avevo paura o che mi sembravano impossibili da affrontare.

Gli ultimi due anni di liceo feci invece la prima terapia vera e propria, di nascosto ai miei genitori, che mi aiutò ad elaborare le esperienze degli abusi subiti fra i dodici e tredici anni, ai quali allora attribuivo tutta la responsabilità del mio orientamento, ma che scoprii in realtà ne erano stati solo un’aggravante. Fu con un noto psicanalista di Palermo, che aveva un approccio integrato e non di psicanalisi pura.

Anche se ero andato per la mia omosessualità, quell’uomo non cercò mai di farmi cambiare orientamento (non ritendendolo peraltro possibile per tutti), né mai si oppose però a questa possibilità. Con grande equilibrio cercò di capire la mia situazione e le mie esigenze, dandomi gli strumenti per leggere quanto mi capitava e decidere io come affrontarlo. Fu il primo a dirmi che la mia mente funzionava in un modo talmente logico e sano, che nel corso del tempo avrei sempre trovato da solo le soluzioni per me stesso, senza una vera necessità di sostegni terapeutici.

Tuttavia, sapendo che a restare soli con i propri pensieri, per quanto logici, si rischia di perdersi e di giustificarsi, all’università per quattro anni ho seguito una terapia di impostazione analitico-transazionale che mi ha aiutato più di ogni altra ad imparare certe tecniche pratiche per smontare i modi in cui auto-sabotavo la mia vita, impedendomi di portare a termine qualsiasi cosa nella quale mi mettessi.

Questo approccio è in assoluto quello che mi ha aiutato di più, essendo concentrato in modo equilibrato, tanto sul passato, quanto sul presente; tanto sulla comprensione, quanto sulla pratica. Ciò che del passato interessa è tanto quanto basta a capire in modo concreto come cambiare ciò che del presente vogliamo sia diverso. Ancora oggi in alcune situazioni difficili mi pare di sentire la voce della mia psicoterapeuta che mi dice: “Bene, lei finora ha fatto così perché le risultava utile per alcune ragioni. Ora deve decidere se vuole continuare così o se vuole fare qualcosa di diverso. Cosa potrebbe cambiare, oggi?”. Ecco il grande merito di questo approccio: dopo la mia guida spirituale, veniva qualcun altro a ridarmi la responsabilità della mia vita, mostrandomi come potessi ragionare fuori dagli schemi, anche quelli che io stesso mi ero imposto, cambiando sempre, in modo nuovo e costane, rispetto alle cose che mi facevano soffrire.

Se stiamo male non tutto dipende da noi, ma noi possiamo fare sempre qualcosa per provare a cambiare il sistema che ci conduce a quel malessere. Non si tratta di decidere di non stare male, né solo di capire perché stai male: si tratta di decidere di fare qualcosa di diverso al di là del malessere che proviamo. Perché se cambi il tuo pezzo del sistema, di fatto cambi il sistema intero.

Pur non lavorando direttamente sull’omosessualità, oggi mi rendo conto che quella terapia mi fece lavorare su molti aspetti legati alla ferita da cui essa traeva origine. Mi insegnò a rispettare quello che provavo e desideravo, senza essere schiavo delle mie emozioni, ma senza ignorarle, imparando ad ascoltarle per capire cosa mi dicevano in profondità. Mi aiutò a recuperare autorità su me stesso, e quindi a ritrovare un atteggiamento maschile di fronte alle situazioni contingenti, diventando capace di dire sempre le cose che pensavo, e di tenere fede a un impegno nonostante le difficoltà. Quella donna in qualche modo mi restituì le redini della mia vita, rendendomene di nuovo protagonista. Senza di lei probabilmente non sarei mai riuscito nemmeno a finire il mio primo libro. Né a costruire mai una relazione autentica, libera e profonda di amicizia.

Dopo l’università e l’anno di pausa a Palermo nel quale ripresi a scrivere, mi trasferii a Milano per diventare scrittore. Lì, quando ormai vivevo alla luce del sole la mia omosessualità, mi innamorai spontaneamente di una donna senza che lo avessi cercato. Decisi perciò di fare il seminario di Luca di Tolve sulle ferite dell’affettività, per capire come potevo amarla di più. Fu Luca a farmi scoprire (finalmente!) Nicolosi. Compresi così il valore terapeutico di molte cose che, per caso o Provvidenza, mi ero ritrovato a vivere fino ad allora, e per le quali mi ero spontaneamente innamorato di quella donna, proprio quando ormai avevo smesso di contrastare la mia omosessualità.

Successivamente sono stato seguito in un percorso di psicanalisi pura con Giancarlo Ricci, psicanalista di grande competenza e professionalità di cui ho già parlato in passato. Allora avevo un pregiudizio molto positivo nei confronti della psicanalisi (per i cattolici di solito è il contrario): la ritenevo l’unica terapia in grado di sanare le ferite più profonde di una persona.  Oggi so che questo è vero solo in parte, e che in realtà non esiste un approccio che sia in grado da solo di rispondere a tutte le esigenze di qualcuno. Nello specifico mi resi conto che la psicanalisi, col suo approccio molto mentale, rischiava di rendermi solipsistico: per una persona già molto abituata a ragionare su se stessa, il rischio è di perdersi nei propri pensieri e, come si dice, di “cantarsela e suonarsela”. Mi resi conto che non era così che sarei arrivato più a fondo di quanto già non avessi fatto. Io avevo bisogno di essere aiutato a vedere oltre i miei pensieri, e non a stare lì dove ero abituato a stare da solo. E in effetti, non solo in terapia, per tutta la mia vita non ho fatto altro che cercare persone dallo sguardo ampio che mi aiutassero a vedere quello che io non vedevo. Per questo lasciai la psicanalisi dopo un anno e mezzo e andai alla ricerca di nuovi approcci più efficaci (e veloci) per me.

Questo per quanto riguarda le mie esperienze dirette.

Ad esse vanno poi aggiunte tutte le esperienze apprese dalla conoscenza di centinaia o forse migliaia di persone, in anni di incontri occasionali. Capisco che questo non è certamente un “metodo di formazione” ortodosso, o moralmente edificante, ma tant’è: fin dal liceo ho voluto sempre conoscere le storie di quelli che incontravo anche solo per un’ora, a prescindere dal fatto che poi ci finissi davvero a letto o no, e questo mi ha fornito uno spaccato vastissimo sul mondo dell’omosessualità dal quale ho appreso molte cose.

Ascoltandoli mi accorgevo di alcune dinamiche interiori e psico-familiari ricorrenti e che andavano a coinvolgere comportamenti in ambiti ben diversi da quelli strettamente connessi alla sessualità: l’assertività, la capacità di assumersi responsabilità, il confronto alla pari col mondo maschile, la capacità di reggere i conflitti in modo costruttivo, l’essere attivi rispetto alle situazioni, una visione equilibrata e amorevole di sé, la consapevolezza della propria forza, la stabilità dell’umore… tutte cose in cui zoppica chiunque abbia problemi con la propria identità maschile, con tendenze omosessuali o meno (con le dovute differenze e sfumature). L’incontro con la Terapia Riparativa e i suoi esponenti, non fece altro che riordinare tutte queste cose che avevo intuito e dedotto per osservazione.

Un altro tassello della mia formazione sui generis infatti è stato, negli ultimi anni, la lettura degli autori che hanno affrontato il tema dell’omosessualità come un sintomo di una ferita profonda dell’identità e non come una variante della sessualità.

Dopo Nicolosi (clicca qui per i suoi libri) ho potuto conoscere anche Cohen, Van Den Aardweg, Comiskey, e dai loro studi ho individuato degli elementi terapeutici comuni, la cui efficacia ho verificato nella vita di moltissime persone. Nonostante ciascuno di questi studiosi (alcuni dei quali hanno vissuto sulla loro pelle ciò di cui parlano) abbia concentrato il proprio approccio su un aspetto piuttosto che su un altro della problematica, tutti senza eccezione dimostrano come una dimensione pratico-esperienziale e relazionale della terapia, oltre che di comprensione, è fondamentale per aiutare chi ha problemi di identità sessuale. Per questo, immagino, l’analisi transazionale mi fu così utile rispetto agli altri approcci: era un capire per fare.

In generale infatti, ciò che ho visto anche per altre problematiche, è che molti approcci terapeutici aiutano solo a capire perché si sta male, ma non sostengono per fare qualcosa di diverso che ti aiuti a stare meglio. Invece per tutti gli autori che hanno lavorato attivamente sul fenomeno dell’omosessualità, e con risultati, è chiaro che capire non è sufficiente. Conta molto di più fare esperienza, di ciò che si è capito.

Anzi, l’esperienza sanante è talmente efficace che potrebbe essere sufficiente a portare un beneficio, anche senza aver compreso del tutto perché questo accada. È dalle esperienze negative del passato che noi abbiamo maturato quelle convinzioni che ci impediscono la vita. E quindi solo delle esperienze contrarie e positive, possono smentire quelle convinzioni, mostrandocene la falsità.

Per fare un esempio concreto: di solito tutti quelli che hanno delle fobie sanno, razionalmente, che esse non sono reali. Tuttavia questa consapevolezza non impedisce loro di provare paura. Chi ha maturato una fobia per i cani magari è perché è stato morso da uno o più di loro. Ma è solo quando affronterà quella paura istintiva accarezzandone uno, magari piccolino, e facendo esperienza del fatto che non lo morde, che inconsciamente inizierà a credere, e non più solo a sapere, che non tutti i cani mordono. E più lo farà, più l’esperienza positiva e la convinzione nuova che ne deriva soppianteranno quelle negative.

Ora, chi ha attrazione per lo stesso sesso è un po’ come se avesse una fobia nei confronti di coloro che appartengono al proprio mondo, uomini verso gli uomini e donne verso le donne, perché per diverse ragioni non è mai riuscito a entrare in relazione autentica e profonda con quel mondo (e quindi con sé stesso), a causa di esperienze negative passate. Perciò per spezzare quella paura, che poi porta all’erotizzazione, deve fare esperienze nuove proprio di ciò che più teme, in modo da maturare una nuova convinzione su quel mondo che prima lo spaventava.

Questo è il motivo per cui molte persone cambiano orientamento o sviluppano nuove capacità al di là di una terapia: perché la vita le porta a fare delle esperienze terapeutiche, senza che se ne rendano conto.

Negli ultimissimi anni sono anche entrato in contatto con diverse realtà che aiutano dentro e fuori la Chiesa chi ha attrazione per lo stesso sesso, alcune più utili di altre. E vedendo quello che “il mercato” offriva, ho capito che forse potevo dare io qualcosa di diverso agli altri, che non fosse solo la testimonianza di ciò che Dio aveva fatto per me, ma anche una prospettiva nuova e concreta non tanto per “diventare eterosessuali”, quanto per diventare sempre di più uomini liberi. Con la coscienza che nessun cammino di questo tipo è mai concluso.

Così, negli ultimi due anni la mia esperienza si è arricchita ulteriormente nel provare a dare aiuto a chi me lo chiedeva. Vedere stare meglio uomini dalle più variegate esperienze ed età, a partire da quei pochi consigli pratici che io avevo verificato nella mia vita, mi ha dato conferma che quanto avevo sperimentato e appreso non è stato solo frutto del caso e che quello che “i Nicolosi” del caso teorizzavano era vero. Gente che non aveva ottenuto niente dopo anni di terapia, ha iniziato a stare bene improvvisamente solo per avere fatto qualcosa di nuovo, e non più solo per aver capito qualcosa di “vecchio”.

In conclusione (mi scuso se oggi sono risultato un po’ lungo) certamente io non sono laureato in psicologia, ma mi rendo conto che su questo tema spesso, per quanto in maniera disordinata, ho più esperienza di quella di tanti che formalmente dovrebbero saperne più di me. E non crediate che non ne abbia cercati.

Negli ultimi mesi ho scoperto che persino alcuni luminari del mondo della psicologia in ambito cristiano, esperti di affettività, che hanno scritto libri sui temi della famiglia, persino dell’amicizia, e creato opere in grado di sostenere molte persone… di omosessualità, in questi termini, non sanno nulla. Qualcuno non aveva mai sentito parlare di Nicolosi, qualcun altro non aveva mai voluto leggerlo, dando per vera l’informazione negativa che ne veniva data dai suoi detrattori a livello mondiale, in modo manipolatorio.

Questo, se da un lato mi ha sconfortato, per il disinteresse o la mancanza di serietà, dall’altro mi ha fatto capire ancora di più la necessità che c’è di mettere a servizio tutto quello che so, per potere provare a dare io, quello che in generale oggi è difficile trovare da altri.  So di non essere infallibile, ma non è una laurea che mi renderebbe certo tale, però di certo non parlo per sentito dire, e non mi ritengo competente solo per aver letto qualche libro. Né tuttavia sono un matto autarchico: ogni volta che posso cerco di verificare che ciò che faccio non sia folle, e con quei pochi eroi che da psicologi hanno ancora il coraggio di guardare all’omosessualità per ciò che è, resto in confronto perché mi aiutino a comprendere sempre di più come sostenere chi ha bisogno. Sono sempre alla ricerca di nuove conoscenze che aiutino prima me stesso e poi coloro che a me si rivolgono.

Ciò di cui parlo è ciò che ho visto vero, in me stesso e in tantissimi altri, e mi dice che quanto faccio e dico ha un senso e un’efficacia.

In questo mi ha molto rassicurato il parere, alcuni mesi fa, di uno psicoterapeuta con più di sessant’anni di esperienza alle spalle nel campo (di cui non faccio il nome per evitargli problemi), che mi ha detto che la mia non-formazione specifica poteva darmi una libertà maggiore per leggere le situazioni ed aiutare altri, rispetto a di chi si era formato appositamente per farlo. Oltre ad avere riconosciuto come vere, sul piano teorico, molte delle cose che dico.

A volte potrò risultare semplicistico, ma vedete, la verità è che molte delle cose che ci fanno bene sono in effetti semplici, seppure non per questo facili per chi non le ha mai vissute. Spesso basta davvero poco per aiutare una persona con questo tipo di fragilità.

A patto, ovviamente che si fidi.

Come l’olio di Lorenzo, che è nato dalla mescolanza di due semplici oli alimentari: l’olio d’oliva e l’olio di colza. A volte la soluzione è lì a portata di mano, e tutto quello di cui abbiamo bisogno è di un amico che ci incoraggi a fare quello che ci spaventa. Ad ascoltare quel dolore, a perdonare quel male. Con la fermezza di chi ti ama, e sa guardare in te quello che tu non hai ancor mai visto. Duro quando serve, e altrettanto capace di dolcezza.

A volte non abbiamo bisogno di un laureato in psicologia, ma solo di qualcuno che ci ami davvero e in virtù di questo amore ci sproni a non accontentarci di una vita a metà. Che ci ami oggi per aiutarci ad essere migliori un domani. Che ci ridoni la Speranza che noi abbiamo perduto, in una vita piena, dove il nostro cuore non giaccia inascoltato al fondo di noi stessi. Qualcuno che sia al nostro fianco mentre affrontiamo le cose che abbiamo paura di affrontare, che ci tenga la mano mentre accarezziamo il “cane” della nostra intimità che non conosciamo e di cui abbiamo timore.

E per far questo non serve una laurea, ma solo un cuore che non si stanchi di amare, in nome di Colui che sempre ci ha amati per primo.

E scusate se è poco.

giovedì 2 novembre 2017

GIAIRO. "NESSUN UOMO E' FATTO PER SOFFRIRE". Dopo LEVI, il nuovo capitolo di Sotto il Cielo della Palestina

A quasi un anno dall'uscita di LEVI, sono felice di potere regalare a coloro che mi seguono non solo per le mie vicende personali, ma anche per quello che produco da scrittore, GIAIRO, il secondo capitolo del trittico Sotto il Cielo della Palestina.

In questi mesi mi ha fatto molto piacere vedere che coloro i quali si sono fidati di me dopo aver letto Io sto con Marta!, non sono rimasti delusi nonostante il cambio di genere dal comico al drammatico.

Come per LEVI, GIAIRO racconta le vicende che hanno visto protagonisti uomini e donne che per un solo giorno nella loro esistenza hanno incrociato il proprio cammino con quello di Gesù di Nazareth, e dei quali nulla è giunto fino a noi, se non quel singolo momento che cambiò la loro vita per sempre. 

Ognuna di queste storie ha un legame speciale con la mia vita, e la salvezza ricevuta ormai dieci anni fa, dopo uno dei momenti più bui della mia esistenza. In questo caso, GIAIRO è nato in seguito alla prima esperienza di amicizia libera che ho fatto: uno dei doni che ricevetti appena lasciata Roma.

Un racconto di coraggio e redenzione con il quale ho cercato di rispondere alla domanda che nessun uomo vorrebbe mai porsi: cosa sei disposto a fare per salvare coloro che ami? Una storia sugli effetti che il male ha sul cuore dell’uomo, e su ciò che salva dal buio più profondo, quando ogni altra luce si spegne.

A differenza di LEVI, qualcuno potrebbe restare turbato dalle tinte torbide di questa vicenda. Infatti, non tutte le storie di Salvezza sono pulite. Piuttosto direi il contrario: spesso non lo sono affatto. Tuttavia questo non le rende meno degne di essere raccontate. Sono convinto che quanto più sia cupo il buio da cui hanno origine, tanto maggiore sarà la luce alla loro fine.
  
Almeno così è stato per me.

Il libro, autoprodotto, è al momento disponibile sia in cartaceo che in digitale solo su Amazon, e come e-book su tutti gli store online, e questo significa anche che ho di nuovo bisogno di voi, per fare sapere ad altri che esiste. I vostri commenti saranno le mie vetrine, le vostre bacheche saranno i miei scaffali della libreria, il vostro passaparola sarà la mia pubblicità, le vostre mani saranno il mio networking: se vorrete, ancora una volta sarete per me quella Provvidenza che in tutti questi anni non mi ha mai lasciato.

Auguro a tutti voi di avere sempre accanto nei vostri momenti di buio almeno un amico vero che sia Luce e presenza di Dio nella vostra vita, ricordandovi ciò per cui vale la pena vivere: "l'amore più grande" cui tutti siamo chiamati.

Credenti o meno.

GIAIRO è acquistabile sia su Amazon che su Kobo e iTunes.

venerdì 20 ottobre 2017

SONO CATTOLICO, E PER QUESTO PARLO - Quando la fede passa dall'umanità.


Dopo il mio ultimo post sul piccolo Charlie e il caso dello psicanalista Ricci, rompo il mio silenzio e torno a parlare di ferite dell’identità, e quindi di omosessualità che di queste ferite è un possibile “sintomo”. Premetto, per i molti che in questi tre mesi mi hanno chiesto se stessi bene, o se mi fossi ritirato “dall’agone”: state tranquilli.  A volte, per potere riprendere il cammino e il combattimento abbiamo bisogno di fermarci, deporre le armi, e riposare.

Questo tempo inoltre mi è servito anche per recuperare la correzione su GIAIRO, il secondo libro di “Sotto il Cielo della Palestina”, che, al contrario di LEVI, mi ha preso molto più lavoro, spero con beneficio per chi lo leggerà. 

Tuttavia l’anno sociale è ricominciato e non si può restare nel silenzio a lungo, quando fuori “il mondo brucia”, per citare un vescovo amato da una persona a me molto cara. Molti sono ancora coloro che vivono situazioni simili alla mia e attendono di sapere che non sono soli. Perciò, eccomi qui, di nuovo.

In questi due anni di incontri e conferenze in tanti mi hanno chiesto di scrivere qualcosa, un libro, un vademecum sul tema dell’omosessualità, che raccontasse la mia esperienza e servisse da guida a chi cerca risposte alternative per se stesso, o per aiutare coloro vicino a lui che vivono un’attrazione per lo stesso sesso, magari anche con delle proposte pastorali. Probabilmente prima o poi lo farò. Intanto provo a usare questo blog per dire alcune cose sul piano teorico, senza avere la pretesa di esaurire tutto sull’argomento.

Prima di entrare nel vivo però, vorrei chiarire una volta per tutte in virtù di cosa io possa permettermi di parlare su questi temi. Posto che nessuno, in ogni caso, è costretto ad ascoltarmi.

L’accusa infatti che i miei detrattori mi fanno più spesso è di non essere qualificato per parlare di omosessualità da un punto di vista psicologico, né da qualsivoglia altro punto di vista (a meno di sostenere il pensiero dominante del “sei nato così”, naturalmente).

Tale accusa si declina in due "sottoaccuse":

io sono cattolico;

io non ho una laurea in psicologia.

Oggi vorrei soffermarmi sulla prima: secondo i miei detrattori, essendo cattolico, la mia posizione sull’omosessualità dipenderebbe tutta da una visione dogmatica impostami dalla Chiesa, che io avrei assunto come vera e alla quale avrei cercato di uniformarmi passivamente.

Sorvolo sul fatto che non esiste persona al mondo che non legga la realtà secondo un sistema valoriale di riferimento, e il fatto che il mio sia cattolico non significa che questo mi renda più parziale di chi magari ha come riferimento l’ideologia comunista, il capitalismo, la religione islamica, il razionalismo o chissà cos’altro.  Il problema vero, in ogni caso, più che nel sistema di riferimento, dovrebbe stare nel motivo per cui lo si adotta e con che atteggiamento. In altre parole: è vero che io sostengo la posizione della Chiesa in maniera dogmatica, cioè come dato di fatto indiscutibile?

No. Per niente. E la mia storia lo testimonia.

Nella mia vita mi sono permesso di sperimentare ogni aspetto della mia omosessualità, da quelli peggiori a quelli migliori, senza che la mia fede e ciò che mi dicevano essere buono (ma che in certi momenti mi sembrava irraggiungibile), mi fermasse in questa totale messa in discussione di quanto mi era stato insegnato.

In alcuni periodi sono arrivato a vivere alla luce del sole comportamenti apertamente contrari a quanto la mia fede mi chiedeva, pur non rinnegandola mai (e senza mai avere la presunzione di dover essere “capito” dalla Chiesa, solo perché non avevo la forza di rispondere alla sua proposta, o di capirla io per primo). Ho sperimentato la vita gay, i locali, il sesso occasionale; ma ho anche avuto relazioni “stabili” (per quanto sia possibile la stabilità tra due uomini con una relazione vissuta sessualmente), mi sono innamorato, e mi sono assunto la responsabilità di vivere una storia con una persona anche sul piano sessuale, pur sapendo che questo contrastava con quanto chiesto dalla mia fede. Ho vissuto la dipendenza sessuale e quella affettiva; ma ho anche avuto la grazia di amare un fratello tanto da lasciarlo libero di andare, nel momento in cui ho capito che questo era il suo bene; ho odiato il mio orientamento sessuale fino a desiderare con tutto il mio cuore cambiarlo, e poi ho accolto la mia attrazione omosessuale come parte della mia storia, fino a oppormi a qualsiasi cambiamento, anche quando mi era innamorato di una donna; per arrivare ad oggi che capisco che “il cambiamento” non va né inseguito né ostacolato, poiché non è il nocciolo della questione.

Ho vissuto il peggio e il meglio. E tutto senza mai dare per scontato nulla. Mi sono interrogato e ho interrogato centinaia e forse migliaia di persone, su come vivessero, sulla loro storia, su quanto fossero felici, trovandomi a letto con loro o meno. Ho fatto (quasi) ogni sorta di pratica che prima giudicavo impraticabile; sono stato usato e io stesso ho usato tantissime persone; ho toccato il fondo e sono risalito, più e più volte. E sebbene non vada fiero delle molte bassezze che ho compiuto, non le rinnego, poiché ciascuna di esse era un passo di un cammino autentico nella ricerca di me stesso e di quell’uomo che Dio aveva in mente quando mi ha creato.

Se da un lato infatti, è vero che non ho mai smesso di credere che un Dio ci fosse, dall’altro ho più volte dubitato del fatto che Egli si interessasse a me e mi amasse. E anche quando questo mi è risultato chiaro, non ho mai smesso di cercare una strada per vivere tutto quello che ero, fragilità comprese, con Lui, al di là delle risposte semplicistiche che talvolta mi venivano date dai sacerdoti e che non rispondevano alla totalità delle mie domande, risultando spesso castranti.

Perciò ecco, alla luce di tutto questo, non mi si può proprio dire che la mia sia una visione dogmatica delle cose.

Se ad oggi dico quello che dico, è solo perché da ciascuna di queste esperienze, anche le peggiori, ho appreso qualcosa che mi mostrava una verità insopprimibile al fondo di noi, che è la stessa che difende la Chiesa da sempre: la nostra natura non è definita dai nostri desideri, ma dal nostro corpo maschile e femminile, in termini biologici, e in termini spirituali dal nostro essere figli di Dio per lo Spirito Santo che questo corpo lo abita. E se il nostro corpo, la nostra carne, dice una verità su di noi, definendoci come maschi o femmine, dice anche in maniera evidente che due persone dello stesso sesso non sono fatte per avere rapporti sessuali tra di loro (il che però non impedisce loro di amarsi, se per amore intendiamo il modo in cui Cristo ama noi: “dando la vita per i propri amici”).

Quindi ecco: sì sono cattolico, ma per sostenere ciò che dice la mia Chiesa, ho dovuto prima metterlo in discussione radicalmente, per arrivare poi a scoprirne la bontà. Badate, non sto dicendo che questo sia il modo migliore di fare: non occorre sempre provare tutto per sapere cosa è male. Anzi, se uno imparasse a fidarsi dell’esperienza di chi ha già vissuto certe cose, si risparmierebbe tanti guai. Dico solo che nel mio caso il mio approccio è stato tutt’altro che teorico, o basato su una fede cieca. E di questo, nel bene e nel male, porto ancora i segni addosso.

In un’epoca in cui, più di ogni altra, siamo chiamati a rendere ragione di quello che crediamo, io ho cercato quelle ragioni umane che supportassero ciò che mi veniva detto per fede: che avere rapporti sessuali con un altro uomo non mi avrebbe fatto bene. Per inciso, questo è anche ciò che inviterei a fare a chi si preoccupa di una pastorale per chi ha ferite dell’identità: prima di deporre le armi di fronte al pensiero dominante, come molti sacerdoti e vescovi stanno facendo (in buona o cattiva fede), verificate se non ci siano risposte umane che diano ragione di quanto la Chiesa propone e dice su questo argomento.

Perché le risposte, fratelli miei, ci sono. E se non ci sono, vuol dire che non le abbiamo cercate abbastanza.

Se c’è una cosa che ho imparato, infatti, è che tutto quello che noi crediamo sul piano spirituale, da cristiani, affonda le sue radici prima nella nostra umanità. Non c’è fede al mondo come il cattolicesimo che rispetti di più la natura umana nella sua interezza. E questa corrispondenza non si contraddice quando affrontiamo le cose dal punto di vista scientifico (se parliamo della scienza vera: quella che cerca di capire la realtà, e non di piegarla aprioristicamente alle proprie teorie e speculazioni ideologiche).

In fondo come potrebbe essere altrimenti? Poteva un Dio che ha preso appieno la nostra natura umana contraddire la Sua stessa volontà e l’ordine che Lui stesso aveva creato? Ma se tutto ciò che è cristiano è anche profondamente umano, allora tutto quello che noi crediamo buono per la vita, deve avere in realtà, prima di una ragione spirituale, una motivazione umana e terrena, che sia riconoscibile sul piano razionale da qualsiasi uomo intellettualmente onesto, a prescindere dalla propria fede.

E in questo l’omosessualità non fa eccezione.

A un certo punto del mio cammino, infatti, mi è stata data la grazia di scoprire alcuni impianti teorici e scientifici che supportavano in maniera solida quello che io avevo verificato nella mia esperienza personale e in quella di tutti gli uomini che avevo incontrato: che l'omosessualità non è immutabile, ha delle ragioni, e va compresa per tutti i comportamenti ad essa correlati che impediscono una vita pienamente libera, al di là di quelli strettamente sessuali. Tali studi sono tra l'altro gli unici coerenti con la visione e le richieste della Chiesa.

Mi riferisco alla cosiddetta Teoria Riparativa, di cui magari parlerò più nello specifico in un’altra occasione e di cui il defunto Joseph Nicolosi era uno dei padri.

E sapete che ho scoperto una volta di più? Che la Chiesa ha ragione, quando chiede la castità, a chi ha ferite dell’identità come a tutti. Ha ragione sul piano psicologico, e umano prima che su quello spirituale.

Ha ragione, anche se nemmeno Lei sa perché.

E talmente poco lo sa, che i suoi pastori hanno iniziato a dubitare dell’effettivo beneficio che una vita vissuta secondo il vangelo potesse portare. Mentre gli altri cercavano giustificazioni “scientifiche” o pseudo-tali per vivere assecondando ogni proprio desiderio in maniera indiscriminata, la Chiesa non si preoccupava di capire perché fosse davvero bene per l’essere umano fare diversamente, forse nostalgica di un mondo in cui si facevano meno domande. 

Per questo motivo oggi chi cita il Catechismo sul tema dell’omosessualità viene accusato di dogmatismo. Perché quando si chiede perché è bene per una persona con tendenze omosessuali non ascoltare quello che per lei sembra un desiderio istintivo di amore, la risposta che più facilmente si ottiene può essere riassunta più o meno in un “perché sì”.

Ecco, a me il “perché sì”, da cattolico, non è mai bastato.  Ed è per questo che, da cattolico, mi riservo il diritto di parlare.

L’unico "vizio" che mi riconosco in questo percorso, è stato quello di fidarmi del fatto che un bene ci fosse a andasse cercato. Molti di fronte al “perché sì”, hanno semplicemente scelto di non fidarsi più di chi li guidava e della loro buona fede e sono andati da altre parti.

Se non ti fidi del fatto che chi ti ama sta cercando di dirti qualcosa per il tuo bene, allora non cercherai nemmeno di capirne le ragioni che lui non sa spiegarti.

Perciò ecco: sì, sono cattolico e parlo da cattolico. Tuttavia il mio essere cattolico è nella libertà di chi non si rapporta con sudditanza alla sua Chiesa, ma in un rapporto di figliolanza che prevede anche il conflitto, ma che non permette a quel conflitto di mettere in dubbio l’amore, e in virtù di questo amore cerca di comprendere Colei da cui è amato e che ama.

Sono liberamente Cattolico, ortodosso, ma non dogmatico, fedele per ciò che Dio mi concede, peccatore secondo quanto la mia natura mi impone. E per questo mi sento libero di parlare e testimoniare ciò che ho verificato, anche a chi non mi ritiene credibile per farlo.

Per quanto riguarda la seconda accusa che mi si rivolge: io non ho una laurea in psicologia, ne parlerò in un secondo momento. Per ora volevo solo farvi sapere che sono tornato e che riprenderò a parlare, ovunque mi si darà l'opportunità di farlo.


A chi crede e a chi no, non smettete di cercare la Verità.

Voi siete meravigliosi.

P.S.
Chi volesse contattarmi per incontri o altro, per ora deve pensarmi nel Veneto e ricalcolare le distanze fra noi. Dopo sette anni ho lasciato la mia Milano, città straordinaria che ho molto amato, e mi sono trasferito a Verona (per quanto tempo ancora non lo so), seguendo un impulso che spero sia di Dio. Era per questo che mesi fa avevo chiesto preghiere. Grazie per chi mi ha ascoltato. Continuate a pregare, perché io capisca ciò che mi è chiesto e abbia sempre la forza di farlo. Ne ho bisogno, incessantemente.



mercoledì 5 luglio 2017

"PARLA E NON TACERE!" - Per Ricci, Charlie, e tutti quelli che non hanno voce



Dopo alcuni mesi di fuoco durante i quali diverse vicende personali mi hanno portato un po’ fuori dalla rete, per occuparmi della vita (che come sempre viene a bussare alla porta quando e come decide lei) torno a scrivere sul mio blog a un giorno dalla partenza con i “miei” ragazzi che accompagno in vacanza studio per la terza volta (peraltro in uno dei luoghi meno sicuri al mondo, parrebbe dagli ultimi eventi: Londra. Pregate per noi).
Normalmente ho bisogno dai tre giorni a una settimana per scrivere un post che sia degno della lingua italiana e che abbia in sé un senso logico (oltre che una piacevolezza nella lettura, da non trascurare quando vuoi che la gente legga quello che scrivi). Oggi però questioni urgenti si sono fatte presenti e, per quanto i miei tentativi di disintossicazione da televisione e telegiornali stiano andando globalmente bene, anche io ogni tanto vengo raggiunto dagli eventi che più toccano l’umanità. Perciò vi chiedo scusa se mi sono ridotto solo ora, a giochi praticamente fatti, a dire qualcosa su alcune faccende pubbliche che hanno risvegliato l’attenzione di molti. Vi chiedo scusa se ne parlo di fretta. Vi chiedo scusa anche perché probabilmente quello che ho da dire non ha nulla di rilevante da aggiungere a quanto già è stato detto.
E tuttavia qualcosa devo dire. Devo parlare.
Non per dare sfogo alla rabbia, non per dare aria alla bocca, come tanti nell’era dei social tendono a fare, considerando se stessi il centro del mondo.
Devo parlare perché è giusto. Perché mi è chiesto. Da uomo, da cittadino, da padre, e da cristiano.
Soprattutto da cristiano.
“Parla e non tacere” diceva Gesù in una visione a San Paolo. Lo stesso San Paolo che diceva “testimoniate in maniera opportuna e inopportuna”. Quasi a ricordarci che quando si tratta di testimoniare, ciò che conta davvero non è come lo si fa. Ma che lo si faccia.
Sempre. Ogni volta che ci è chiesto.
Ora, io non sono di certo San Paolo, ma credo che quell’invito rivolto a lui, in fondo sia l’invito che viene rivolto a ciascuno di noi, credente o meno, in questi tempi in cui la libertà di parola non è più un diritto riconosciuto, in oriente quanto in occidente.
Eh sì, anche nel nostro occidente. Perché se in oriente si viene uccisi, qui da noi, nella “civiltà del progresso” si finisce sotto processo (quando non si viene uccisi anche qui deliberatamente, come in maniera orribile sta dimostrando la storia del piccolo Charlie).
Ed è quello che sta accadendo al mio amico Giancarlo Ricci, per il quale oggi torno a scrivere.
Psicanalista milanese con più di quarant’anni di esperienza alle spalle, giudice onorario del tribunale dei minori, che, chiamato a presentare il suo libro durante la trasmissione “Dalla vostra Parte” con Paolo del Debbio, ha osato dire che per il bambino “la funzione di padre e madre è essenziale e costitutiva del percorso di crescita”.
È bastato questo per far scattare l’aggressione verbale in loco, con l’accusa di “omofobo” e “fautore dell’odio” (benvenuto nel club, Giancarlo!) e il successivo procedimento disciplinare dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, di cui aspettiamo il verdetto nei prossimi giorni.
Bene, come ho già fatto in passato per Luca Di Tolve e i servizi scandalistici delle Iene (che un giorno cercano di screditare Luca, e il giorno dopo dimostrano che le cose che Luca ha sempre raccontato sono vere, denunciando i finanziamenti dell’Unar alle Saune dell’Andoss) ho deciso di dire la mia in questa faccenda di cui mi ritengo, e lo dico ufficialmente, “persona interessata dei fatti”.
Non si tratta infatti solo di riconoscere l’evidenza: e cioè che se un essere umano, da che esiste il mondo, ha bisogno di un uomo e di una donna per nascere, forse è perché nella migliore delle condizioni possibili ha bisogno di un uomo e di una donna anche per crescere (quando una donna con patrimonio genetico XX sarà in grado di generare spermatozoi ne riparliamo).
Oltre questo c’è anche un elemento personale della mia storia che mi fa sentire la responsabilità di parlare in difesa di Ricci, che non a caso definisco amico: io sono stato suo paziente. Quindi, come per i seminari di Luca Di Tolve, quello che io testimonio oggi non è un’opinione costruita su un ragionamento, ma la mia esperienza diretta.
Sono pronto a testimoniare davanti a qualsiasi giuria il bene che quest’uomo mi ha fatto, la grande dolcezza e accoglienza che ha avuto, oltre al rispetto profondo della mia persona, anche nel momento in cui ho scelto per ragioni personali di interrompere la terapia.
Già perché se vogliamo parlare di diritti, allora fra questi anche i miei sono stati lesi. In un’epoca in cui ogni desiderio è diritto, io rivendico il mio desiderio e quindi diritto ad andare, se voglio, da uno psicoterapeuta che conosce anche le teorie di Nicolosi e la sua teoria riparativa e cercare di farmi aiutare da lui.
E tanto per dire, io Nicolosi se potessi lo farei leggere ad ogni persona con attrazione omosessuale sulla faccia della terra, non perché “diventi” eterosessuale, ma per aiutarla a capire le passioni che la animano a volte in modo incontrollato e che alla lunga portano a un sofferenza immane, che lo si ammetta o meno.
E tuttavia, oggi non scrivo per convincervi della bontà della Riparativa, che io sostengo pur avendo ancora attrazione omosessuale, né per convincervi della bontà di questa persona, Giancarlo Ricci.
Infatti sono certo che molti che vedono anche me come un “fautore dell’odio” sarebbero pronti a trarre conclusioni in merito, che non facciano che dimostrare la loro teoria.
Mi pare già di sentirli: “se i frutti di Ricci sono i Giorgio Ponte di turno, tutto torna. E lui non è nemmeno cambiato”.
No, io sono qui a difendere la libertà di espressione e la professionalità di un uomo che in tanti anni di esperienza ha aiutato centinaia di persone.
Voglio che in uno stato democratico chiunque dica che un padre e una madre sono necessari per lo sviluppo di un bambino come lo sono per il suo concepimento, abbia la libertà di dirlo, almeno tanto quanto lo hanno gli studiosi della parte “avversa” che dicono il contrario. Dal momento che tutta la psicologia evolutiva dalle sue origini ha sempre dimostrato e sostenuto questo, per ben più decenni di quanto non abbiano fatto le moderne teorie del Gender.  
Rivendico per ogni teoria che abbia studi a supporto almeno la pari dignità nel dibattito scientifico. Soprattutto per una scienza che per definizione NON è esatta come la psicologia, e che per sua natura si rifà a teorie e approcci differenti e in continua evoluzione.
O dovremo iniziare a dire che anche i diversi approcci terapeutici per curare questo o quel disturbo sono giusti o sbagliati? Che la Psicanalisi è migliore della Cognitivo-comportamentale; o che la Gestalt lo è rispetto all’Analisi Transazionale?
Che dibattito scientifico è quello che mette a tacere la pluralità di voci, scegliendo una lettura e difendendola ad ogni costo, denigrando chi la pensa diversamente come il peggiore squadrone di ultrà allo stadio, per pura “fede” sportiva?
Qualcuno dirà che il mio discorso lo faccio solo per motivi di fede, e che per la mia fede non sono attendibile. Ma anche questo è un pregiudizio al contrario.
Amici anticattolici che additate noi cristiani come quelli che non ragionano con la loro testa in nome di un Dio che non esiste: attenzione a sostituire il nostro Dio che non esiste, con un altro Dio-ideologia dai modi molto più coercitivi del nostro. Finora non mi pare che nessuna gendarmeria vaticana abbia messo sotto processo qualcuno che fa affermazioni contrarie alla dottrina della Chiesa.
Anzi, persino i più eretici tra sacerdoti e vescovi oggi parlano disconoscendo pubblicamente il vangelo senza che nessuno fiati. Dalla benedizione delle coppie unite civilmente; alla negazione dell’esistenza del demonio; alla riduzione di Cristo al “primo comunista della storia”; alla visione dell’omosessualità come natura alternativa a quella maschile o femminile: nella Chiesa tutti parlano a sproposito e nessuno interviene. Un sistema che non è di per sé democratico, mostra una democrazia cento volte superiore a quella dei nostri stati occidentali dove riconoscere l’evidenza della natura nel suo binomio maschile-femminile è diventato un crimine.
Bene, io oggi sono qui a schierarmi in prima fila per dire che Giancarlo Ricci merita di essere difeso da ciascuno dei suoi pazienti e colleghi, che vivendo nell’ombra e nella paura di finire vittime come lui, restano in silenzio, senza capire che se si sollevassero tutti insieme, scoprirebbero di essere un esercito di migliaia di persone che nessun governo e nessuna ideologia potrebbe zittire. Di più, se oggi la gente comune ragionasse al di fuori del politicamente corretto, capirebbe che ogni cittadino libero che si ritenga tale e voglia restarlo in questa nazione, come in questo nostro mondo, dovrebbe farsi carico di difendere uno come Ricci.
Parlo e non taccio, perché oggi questo è chiesto a me come a tutti noi. Anche a te, che leggi e pensi di non potere fare la differenza.
Certo, non la parola di tutti ha lo stesso peso sull’intera società. Basti pensare al tristemente famoso Charlie.
Dio sa se non avrei voluto una parola chiara, in difesa di quella vita innocente che uno Stato libero sta decidendo di uccidere contro il volere dei suoi genitori, da parte di chi potrebbe fare la differenza. Piangiamo i bambini morti per gli sbarchi. E facciamo bene. Ma quando quei bambini li uccidiamo noi qui, “legalmente”, nessuno ha il coraggio di dire “No!” in modo chiaro, facendo nomi e cognomi e non solo discorsi generici.
Almeno nessuno la cui voce conti davvero, dopo che milioni di voci si sono levate inutilmente.
Nemmeno quella di una Regina che per definizione è chiamata ad essere madre del suo popolo, oltre che rappresentante per esso di Dio, e che oggi resta in un silenzio che le sporca le mani di questo sangue innocente. Un capo deve avere il coraggio di prendere decisioni impopolari per salvaguardare la vita di coloro di cui ha la responsabilità. Così come un padre deve saperlo fare per i propri figli. Anche per quelli che piangono o battono i piedi.
O non è capo e non è padre. E persino le madri ora, sono state uccise.
Da che ho memoria ho sempre sentito molto forte il peso della responsabilità personale nel denunciare o meno il male attorno a noi. Ho sempre creduto che se sono spettatore di un male e resto in silenzio, allora il mio silenzio mi avrebbe reso complice di quel male.
E quindi io, almeno io, anche se non sono capo di nulla, parlerò.
E parlerò proprio per dire questo: che bisogna parlare.
Ciò che sta accadendo ai genitori di Charlie, ciò che sta accadendo a Giancarlo Ricci e a tanti altri come lui, ci dice questo: che il tempo della diplomazia è finito. E quello della dittatura e della persecuzione incombe. Anzi è già cominciato. E voi che credevate di potere defilarvi, restando tranquilli nelle vostre case, ignorando il male che dilaga, curandovi solo dei vostri figli e del vostro orto, sarete comunque raggiunti da questa guerra da cui siete fuggiti, nascondendovi dietro al pensiero che qualcun altro avrebbe fatto per voi; che voi non siete adatti; che “ognuno ha la sua chiamata, e questa non è la mia”. Questa guerra mascherata da dibattito, combattuta a colpi di “legalità”, vi verrà a prendere. Che vi piaccia o no. Per quanto ancora vorrete restare in silenzio?
Nessuno vuole combattere. Nessuno vuole il conflitto. Ma nessun uomo che si ritenga tale dovrebbe sottrarsi ad esso, nel momento in cui al conflitto viene chiamato per difendere ciò in cui crede e soprattutto coloro che ama.
E ora non usate il povero Gesù come fantoccio per giustificarvi: “Lui non ha combattuto, una guerra. Lui ha porto l’altra guancia. Ed è morto”.
Se volete tirare in ballo Gesù allora siatene all’altezza. O almeno provateci. Gesù era un uomo vero, che come tale sapeva dire le cose e non si è mai tirato indietro nel dire la Verità. Ed è in nome di quella Verità, che è morto.
Non era un placido imbecille masochista che si è fatto ammazzare per il gusto di farlo. Da uomo ha fatto ciò che gli era chiesto, e ne ha portato il peso delle conseguenze fino in fondo, morendo. Da Dio, ha trasformato quello che per gli uomini era un fallimento, nella più grande vittoria della storia dell’umanità.
Ha combattuto. Altroché se ha combattuto.
Se prendi lui ad esempio, allora sii pronto a fare come lui.
Muori.
Muori per salvare coloro che ami. Muori combattendo.
Per Charlie, per Giancarlo Ricci, per ogni indifeso che grida giustizia davanti a Dio.