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giovedì 30 marzo 2023

"NON ABBIATE PAURA DI DIRE LA VERITA''!" - Appello a tutte le guide nella Chiesa.

 


Ultimamente sto vedendo un equivoco molto diffuso anche in alcune realtà della Chiesa particolarmente ricche dal punto di vista dei doni dello Spirito, ma dove è passata l’idea di non parlare troppo di sessualità per non allontanare la gente. 

Perciò durante più di una notte travagliata in cui questo pensiero non mi lasciava dormire, ho sentito il bisogno di scrivere questo articolo per cercare di chiarire alcune cose che in pochi oggi dicono: una sessualità ordinata non è fare sesso solo con una persona alla volta e solo "quando c’è l’amore", a prescindere da che tipo di relazione si stia vivendo, dallo stato di vita o dal genere sessuale

Una sessualità ordinata significa fare esperienza del fatto che noi non abbiamo bisogno di fare sesso per amare; che il sesso dice l’amore solo in una scelta di donazione totale e per la vita all'altro che non esiste all'infuori del matrimonio, e che solo con la grazia di un sacramento si può sperare che esso non sia un modo per usare l’altro.

La castità non è una chiamata particolare per i preti e per gli omosessuali a cui è chiesto di “castrarsi” rinunciando a un “bisogno fisiologico come mangiare o bere”. La castità è una chiamata universale all’amore vero, libero, che non possiede. Ed è una chiamata che Dio fa a tutti! E per chi non è sposato, quale che sia il motivo (prete, religioso, omosessuale, separato, o semplicemente single), la castità significa anche continenza, cioè non avere rapporti sessuali. E se ve lo dice un sessodipendente con attrazione omosessuale potete crederci: c’è una chiamata alla libertà lì.

Perché voi che sapete non lo dite? Perché chi lo ha sperimentato rimane in silenzio?

Preti dove siete? Formatori, perché restate in silenzio, se sapete?

Perché vi state preoccupando solo di non rendere “troppo gravoso questo impegno”, anche voi che dovreste sapere quale dono di libertà ci sia dietro?  Vedo una Chiesa preoccupata di avvicinare e accogliere, dando mezze verità, per paura che la Verità tutta intera faccia scappare. E se questo va bene all’inizio di un percorso, non può essere la caratteristica costante in un cammino di crescita.

Vedo realtà che corrono a chiedere nullità di matrimonio, invece di preoccuparsi di fare sposare le persone solo quando davvero hanno fatto un incontro con Cristo e hanno capito che non è il matrimonio che darà senso alle loro vite, ma quanto sanno amare come Lui ancora prima di trovare qualcuno da sposare. 

Vedo preti che cercano scappatoie emotive per giustificare il sesso dei figli loro affidati purché “ci sia l’amore”. Ma come si educa all’amore se non sei in grado di stare con una persona senza che quella debba appagarti sessualmente?

Vedo preti che negano duemila anni di insegnamenti della Chiesa e del vangelo, perché loro in prima persona non hanno mai sperimentato la bellezza della castità e si sentono castrati.

Vedo realtà dove i formatori sono molto coscienti di cosa sia la castità, ma non formano nessuno sotto di loro perché “da fare sesso con chiunque a fare sesso solo con il fidanzato o la fidanzata va già bene”.

Certo che non tutto si può subito, certo che per chi faceva sesso tutti i giorni con mille persone diverse, arrivare a farlo solo con il fidanzato o la fidanzata è un passo in avanti. Ma qualcuno mi ha insegnato che nella vita spirituale bisogna sempre continuare ad avanzare, o si torna indietro. E se a chi ha scoperto il profumo della libertà, non facciamo gustare il suo sapore pieno… non stiamo facendo un servizio. Lo stiamo privando di qualcosa.

Perché non credete alla chiamata di grandezza che Dio ha fatto all’uomo? Perché non credete che Dio ci rende capaci di amare così? Mi sembra di sentire ancora la voce di Gesù che spiega ai discepoli come Mosè avesse scritto una legge “alternativa”, in cui si poteva ripudiare moglie e marito, per la durezza del cuore di quel popolo. Nonostante “in principio non fosse così”(Mt. 19, 8).

Quel popolo però, il popolo di Dio, non aveva la grazia dei sacramenti, la potenza di Dio che oggi abita in noi grazie allo Spirito. Ma insomma, ci credete che Dio è Dio o no? Che nulla è impossibile a Lui?

Perché non dite la Verità? Perché nelle vostre realtà di Chiesa lasciate che passi il pensiero che stare con una persona del proprio sesso o di un altro sia indifferente? Non è vero.

Perché dite ai fidanzati che se si vogliono bene possono vivere una sessualità che non li educa all’amore?

Non è vero.

Io non dico di imporla, questa Verità, di metterla come conditio sine qua non per potere camminare in un cammino di fede, non chiedo di subordinare l’amore ad essa. Non tutti possono capire o vivere queste cose subito, ma almeno mostrarne la bellezza e porla come una meta possibile, questo sì.

Perché Dio non ci chiede cose impossibili.

E se tu prete, tu suora, tu educatore, tu formatore, pensate che questo sia impossibile… allora forse vale la pena di chiedersi come state vivendo voi la vostra sessualità: e se non ci sia qualcosa di cui ancora non dobbiate chiedere a Dio di prendersi cura nel vostro cuore.

Com’è possibile che debba essere un laico, omosessuale e sessodipendente a ricordarvi la Sapienza della castità che vi è stata affidata? Conosco coppie omosessuali che hanno scoperto che la castità liberava il loro rapporto di coppia, rendendolo ciò che era chiamato ad essere, un’amicizia elettiva che ha dato tanto frutto nella loro vita; conosco separati che per anni hanno atteso che la Chiesa ratificasse che quel loro primo sacramento non era mai avvenuto, senza avere rapporti con la persona con cui stavano, pur desiderandola, fidandosi del fatto che se la chiamata alla castità era per tutti, forse voleva dire che lì c’era un bene anche per loro; conosco fidanzati che avevano rapporti e che hanno deciso di smettere di averne in attesa del matrimonio, riscoprendo una verginità da cui sono stati salvati nell’Amore; e conosco coppie sposate che hanno scoperto un piacere sessuale al di sopra di ogni immaginazione, solo per aver capito che il matrimonio non andava male perché non “sc*pavano bene”, ma non sc*pavano bene perché  fuori dal letto non sapevano amarsi davvero.

Vi prego… smettete di annacquare la ragioni della fede perché avete perso fiducia in Dio e quindi nell’uomo e nella sua chiamata alla grandezza. Chiamate chi vive queste cose a testimoniarle, affrontate il rischio di non essere amati per ciò che dite, e annunciate che Dio ci salva dalla lapidazione perché ci ama oggi così come siamo, ma per amore ci chiede anche di “andare e non peccare più” (Gv. 8,11).

E se voi siete i primi a non mostrare l’errore ai figli a voi affidati, non sarà a loro che sarà imputato questo errore, ma a voi. L’errore di migliaia di persone graverà sulle vostre spalle. Oltre ad avere privato questi figli di una ricchezza, che forse, solo perché a voi risultava preclusa, avete fatto in modo che nessuno dovesse avere.

Convertitevi. Convertiamoci. Non è troppo tardi. 

Possiamo ancora essere un segno di libertà in questo mondo che non sa più cosa vuol dire essere davvero liberi di amare.

domenica 2 gennaio 2022

A TE O DIO - Il mio personale ringraziamento per il 2021. Perché c'è sempre un motivo per dire grazie.


Quanti sorrisi hai perso in questi due anni? Quanti abbracci, quante cene, quanti pranzi, quante carezze, quanti traguardi da condividere, pianti da consolare, risate da distribuire, nodi da sciogliere…

Mentre sceglievo le foto per dare il mio personale Te Deum a un altro anno di esistenza che si scioglie, so di poter rispondere: io non ho perso niente. Perché per tutto ciò che ho perso, ho guadagnato di più, e in ogni momento ho cercato di vivere tutto, appieno, fin dove mi era permesso e oltre. E lodo Dio per tutto.

Perché mi fido che tutto ciò che ho perso dovevo perderlo,

perché credo che chi se n’è andato era giusto che se ne andasse,

perché so che il dolore da vivere era giusto che andasse vissuto,

e capisco che persino il peccato che ho commesso serviva a ricordarmi come la vita sia tutto questo: bene e male; pianto e riso; tristezza e gioia, peccato e redenzione.

Lo era prima del 2020. Lo sarà dopo il 2021.

In questo anno ho avuto l’onore di camminare accanto a ragazzi giovani dal valore inestimabile, cercando di mostrare loro gli uomini liberi che saranno un domani, lontano da me, quando diventeranno padri a loro volta;

ho avuto la grazia di scoprire degli amici nascosti dietro la maschera di “colleghi” e la fortuna di scoprire chi fra quelli che credevo “amici” indossava solo una maschera;

ho avuto il dono di trovarmi a condividere Dio con chi avevo cercato per condividere sesso;

ho vissuto momenti di normalità dove regnava la pazzia;

ho pianto solo quando davvero valeva la pena di farlo e ho avuto la grazia di poter ridere quando molti altri piangevano;

di tutto ho goduto secondo quanto poteva essere goduto: ho riscoperto la scrittura, ho ripreso timidamente a credere nel mio sogno, ho lasciato il lavoro, ho potuto di nuovo avere la grazia di sperimentare la Provvidenza, ho viaggiato in Italia e fuori quando il mondo intero diceva di restare a casa;

ho visitato un paese fatto di sole, di luce, di vento freddo e di alberi, di Dio e dei sapori forti che hanno le cose semplici, e ho potuto farlo con un amico al mio fianco;

ho ritrovato i compagni di strada persi e me ne sono fatti di nuovi;

ho scoperto che per chi cerca il Vero sempre, non esiste nazione o cultura che possa dividere;

ho lasciato andare commosso chi mi ha amato fin da prima che nascessi, grato del coraggio con cui ha vissuto con dignità e Bellezza fino alla fine;

ho potuto ricordare che la croce è pesante, ma non è la fine.

Forse tu che leggi non hai potuto godere di queste cose. Forse la paura ti ha schiacciato, il dolore ti ha sommerso, e l’ansia per ciò che ancora non è ti impedisce di respirare. Forse leggendo le mie parole provi rabbia, e forse quella rabbia cela un’invidia che non osi nemmeno ammettere con te stesso. Per qualcuno apparirò pazzo, per altri irresponsabile, per molti sarò un bugiardo.

Ma tutto questo non è né un mio merito, né una mia colpa. Questo lo fa Dio, per tutti. Un giorno alla volta, 365 giorni all’anno. Nel presente. Sempre. Anche quando non lo senti, anche quando non ci pensi.

Ogni volta che ci riprovi, che torni a guardare Lui, ti accorgi che Lui era sempre stato lì. Persino quando avevi perso te stesso, Lui non aveva perso te.

Perché "se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?" (Rm 8,31). E se lui ci guida lo fa in tempo di pace come in tempo di guerra; se si occupa di noi lo fa nella gioia come nel dolore; se ci ama lo farà prima della pandemia e anche dopo.

O è vero, o non è vero. O lo credi, o non lo credi.


E se lo credevi prima, quando stavi nell’illusione che tutto fosse sicuro e prestabilito, tanto più dovrai crederlo oggi che hai scoperto che non c’è nulla di sicuro o certo che non sia la morte. O il Suo amore.

E se non lo hai mai creduto, guarda all’evidenza: si può ancora vivere, si può sempre gioire. Se c’è chi lo fa, vuol dire che si può. Non vivendo nel ricordo di quando le cose andavano meglio; non aspettando il tempo in cui le cose miglioreranno: lo si fa oggi. Qui, ora.

Come si fa a non dire grazie? Come si fa a non vedere come "tutto concorre al bene per coloro che amano Dio?" (Rm 8,28)

Un anno di pandemia in meno. Un anno di vita in più.

Scegli tu cosa vedere in ciò che vivi.

Io ho scelto di dire grazie, ancora una volta.











































mercoledì 27 ottobre 2021

QUATTRO ANZIANI DUE CANI E UNA PROSTITUTA - Dopo 7 anni da "Io sto con Marta!" una nuova storia di speranza su come non sia mai troppo tardi per dare una svolta alla propria vita!

Una farmacista single ex sessantottina, un pensionato che parla con la moglie morta, un settantenne latin lover ossessionato dalla sua pancia, e una perfetta 
sciura di chiesa con inconfessabili fantasie sessuali e un’ironia dissacrante, si ritrovano ad essere i protagonisti della più rocambolesca avventura che abbia mai visto coinvolti quattro pensionati.

Per aiutare la ragazza a pagare il suo debito con la malavita, i quattro dovranno affrontare boss, improvvisarsi ladri e soprattutto riuscire nella sfida più grande di tutte: imparare ad andare d’accordo! La Congiura dei Pensionati è il primo capitolo di una commedia brillante che vi farà ridere e commuovere, riflettere e restare col fiato sospeso. Una storia sulle risorse che si nascondono in ognuno di noi e sul diritto di esistere di tutti quelli che il mondo vorrebbe dimenticare. 

Perché in fondo non è mai troppo tardi per cambiare la propria vita. 

Anche a settant’anni!

Dopo 7 anni da "Io sto con Marta!" (Mondadori), esce il mio nuovo romanzo comico in parti: "Quattro Anziani due Cani e una Prostituta". Una nuova storia di speranza sulla terza età, sull'amicizia e sul valore che hanno tutte le esistenze.
Anche quelle che il mondo vorrebbe dimenticare.

Potete ordinarlo in cartaceo o in formato digitale a questo link (dove trovate anche gli altri miei romanzi).

Se vi piacerà, condividete, commentate, recensite e fate stories con il libro! Aiutatemi a farlo salire in classifica come nel 2015 avete fatto con "Io sto con Marta!".

Senza di voi non si può fare!

PER QUALSIASI INFORMAZIONE SU COME ACQUISTARE IL PRIMO ATTO DEL ROMANZO O SU COME PRENOTARE IL SECONDO ATTO GUARDA IL VIDEO DI PRESENTAZIONE QUI SOTTO!
 

domenica 14 marzo 2021

IL SEME DI MELA - Piccola storia su come ho scoperto di non essere Dio (per fortuna).


L'anno scorso ho piantato per gioco un seme di mela in un vaso insieme a dei semi di peperoncino. Il mio obiettivo era il peperoncino, non certo la mela. Eppure inaspettatamente fu proprio il seme di mela l'unico a germogliare.

Nel giro di un mese venne su un bell'alberello con sette foglie. Ero molto fiero del mio piccolo melo. Avevo imparato a conoscerlo, scoprendo che troppa
acqua lo affaticava e che in realtà lui stava bene se lo si lasciava in pace a prendere sole e pioggia senza particolari attenzioni.
Poi è venuta l'estate e sperando di fare bene l'ho lasciato ai vicini.
Fine del melo.
Così a settembre quando mi sono trovato un melo morto, e una piantagione di funghi nello stesso vaso (a testimonianza di quanta luce aveva preso il mio povero alberello) ho deciso di ripetere il miracolo e ho iniziato a disseminare ovunque semi di mela innaffiandoli costantemente.
Nulla. Non c'era più luce, non c'era più caldo. Il miracolo non poteva avvenire.
Sono passati mesi durante i quali ho protetto in casa i basilici nati per caso dai semi di quelli morti prima dell'estate, mentre fuori la neve, il vento e il resto spazzavano i vasi e le erbe spontanee, uniche superstiti insieme alla menta.
L'altra mattina sono uscito sul balcone per guardare la mia menta e... Eccoli lì: i semi di mela erano germogliati. Non uno, non due, ma tre in due vasi diversi. Nemmeno ricordavo più di averli piantati lì.
Ecco, so che è banale la metafora, ma ammetto che nel coltivare le piante, così come nel fare il pane, è stupendo riscoprire con la concretezza dell'esperienza il senso di quelle parole che Gesù usava per spiegare il regno di Dio ai suoi discepoli. A noi.
«Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura». (Mc 4, 26-32)
È proprio vero: la nostra vita, così come la missione che Dio ci ha dato, sono così. Ti dai tanto da fare, fatichi, progetti e ti convinci di fare tutto al meglio nell'illusione di essere tu a costringere il seme a germogliare. Di essere tu a generare il miracolo. Ma è solo un'illusione. Se non è il tempo, nulla crescerà.
Il miracolo non lo fai tu. Perché tu non sei Dio.
Tu sei solo un servo. Uno strumento. Puoi solo provare a creare le condizioni migliori: se non semini nulla cresce. Ma se semini, non sarà questo ad autorizzarti a pretendere che cresca qualcosa.
A volte nella nostra vita è così: ho amato così tanto quel figlio eppure lui sta male lo stesso e magari mi odia pure; ho fatto tutti i corsi sull'affettività, e invece sono ancora qui a quarant'anni solo come un cane; ho insegnato tutto quello che sapevo ai miei studenti, eppure nessuno sembra aver imparato niente; ho fatto tutto ciò che ho potuto per quel sogno, quel progetto, quella missione che Dio mi aveva dato, ma non ho ottenuto nulla; ho usato le parole migliori, ho pensato ogni singolo dettaglio per portare Cristo agli altri, e invece nessuno mi ha creduto.
Ho seminato, innaffiato, irrogato, ma nulla germoglia.
E poi quando hai smesso di pensarci, quando ti arrendi all'evidenza del fatto che tu non hai potere sulla vita, ecco che la Vita si manifesta.
E arriva ciò che speravi. E spesso arriva quello che non osavi nemmeno sperare: pianti peperoncino e ti arriva un albero di mele.
La Vita si manifesta: perché essa ti precede e ti oltrepassa. Non dipende da te, anche se ha bisogno anche di te.
Il tuo compito è solo di seminare, e poi rimetterti in contemplazione di ciò che, quando si manifesta, lo fa per grazia, non perché lo decidi tu.
Non sta a noi far germogliare. A noi sta seminare. E avere fiducia. Perché anche se oggi non vedi nulla, persino quando avrai perso le speranze di vedere qualcosa, stai sicuro che Dio sa bene quando è il tempo giusto perché ciò che hai seminato germogli. Nella tua vita, come in quella di coloro che ami.
Una mattina ti alzerai e scoprirai che il miracolo è avvenuto.
Come, nessuno lo sa.
Continua a seminare e poi lascia andare. Perché la gioia non sta solo nel vedere il frutto: la gioia sta nell'aver fatto la nostra parte, sapendo che questo era tutto ciò che ci veniva chiesto.
Perché la primavera prima o poi torna sempre. Che tu ci pensi o no.

venerdì 7 dicembre 2018

YOKABE. "Tutti siamo in debito con qualuno". Dopo LEVI e GIAIRO il capitolo finale di Sotto il Cielo della Palestina


Quando scrivevo la prima storia di Sotto il Cielo della Palestina, nella mia vecchia stanza di Palermo (un bugigattolo che ha visto i natali anche di Io sto con Marta!, più simile allo sgabuzzino di Harry Potter che a una camera da letto) stavo solo cercando di capire se dopo sette anni durante i quali mi ero permesso di seguire altre strade, fossi ancora capace di scrivere una storia dall'inizio alla fine. Certamente non potevo pensare che dieci anni dopo quei personaggi che avevo immaginato nell'intimo della mia mente, ascoltando a ripetizione le musiche del Principe D'Egitto e di American Beauty, sarebbero entrati a far parte della vita di tante persone, toccandone il cuore in modi che non avrei mai creduto possibili.

Quella prima storia era Yokabe, in una versione molto più leziosa, ridotta e abbozzata di quanto non sia la storia che oggi vede per ultima la luce. Allora Yokabe era "solo" la storia di una ragazzina divenuta donna, che doveva lottare contro un contesto sociale che la rifiutava e il dolore di un marchio d'infamia che non poteva togliersi di dosso. Oggi questo romanzo è diventato qualcosa di più. E' la storia di una coppia, di un amore, di due esistenze che si intrecciano in una e di quanto le ferite familiari dell'uno e dell'altra si trovino a pesare su entrambi. E' una storia di peccato e di redenzione. La storia di una donna e di un uomo e del loro cammino per ritornare a vivere.

Ma più di tutto questo, Yokabe è stata a suo tempo la portavoce del mio senso di rinascita, in un momento in cui non potevo raccontare esplicitamente ciò che Dio aveva fatto per me. A lei affidai la Speranza e la gratitudine che il mio cuore voleva cantare al mondo, e che il mio pudore mi impediva di fare liberamente.

Allora non mi rendevo conto delle tante immaturità e ingenuità del testo (per fortuna o lo scoraggiamento mi avrebbe impedito di proseguire nell’impresa!), tuttavia ciò che avevo provato nell’affidare a quel personaggio il mio messaggio segreto e il modo in cui esso passava, nonostante tutto, in chi leggeva, mi convinsero che valeva la pena di ampliare quel progetto trasformandolo in una trittico di racconti.

Avevo pensato di scriverne molti di più, ma più scrivevo, più mi accorgevo che quei personaggi, che nella Storia sono esistiti davvero, mi chiedevano più spazio e tempo per essere mostrati di quanto non pensassi. Dopo un anno mi ritrovai tra le mani due romanzi brevi e un racconto, e capii che non sarei stato in pace finché non avessi trovato il modo di rendere quelle storie disponibili per chiunque avesse avuto la voglia di leggerle. Ci sono voluti dieci anni, infiniti lavori, un corso all’Università Cattolica e un altro romanzo benedetto da un inaspettato successo, perché quel desiderio trovasse compimento.

Oggi mi rendo conto che è stato un bene. Dieci anni di esperienza in più, non solo di mestiere, ma soprattutto di vita, hanno donato a queste tre storie uno spessore che il ragazzo che ero allora non avrebbe mai potuto dare loro. Proprio come capita con i figli infatti, che per quanto pensi di conoscerli, più passa il tempo e più scopri cose nuove di loro, oggi rileggendo le vicende di questi figli di "carta", li ho compresi molto più di quanto non avessi fatto quando li ho concepiti.

Con l’uscita di YOKABE questo cammino durato anni si conclude. Considerato che il motivo per cui sono salito a Milano è stato proprio riuscire a pubblicare questa raccolta, posso dire senza esagerare che a questo racconto devo quello che sono oggi. Poiché quello che sono non esisterebbe senza tutto quello che mi ha donato questa città. 

L'affido a voi, nella speranza che ancora una volta, passando di mano in mano tramite coloro che spero l’ameranno, questa storia possa girare al di là dei circuiti più noti, raggiungendo coloro ai quali può fare bene leggerla. 

Con l'augurio che qualcosa di essa vi tocchi, cambiando la vostra vita, come ha cambiato la mia.


YOKABE è al momento è acquistabile in formato digitale e cartaceo su Amazon, Kobo e su tutti gli store online.






giovedì 2 novembre 2017

GIAIRO. "NESSUN UOMO E' FATTO PER SOFFRIRE". Dopo LEVI, il nuovo capitolo di Sotto il Cielo della Palestina

A quasi un anno dall'uscita di LEVI, sono felice di potere regalare a coloro che mi seguono non solo per le mie vicende personali, ma anche per quello che produco da scrittore, GIAIRO, il secondo capitolo del trittico Sotto il Cielo della Palestina.

In questi mesi mi ha fatto molto piacere vedere che coloro i quali si sono fidati di me dopo aver letto Io sto con Marta!, non sono rimasti delusi nonostante il cambio di genere dal comico al drammatico.

Come per LEVI, GIAIRO racconta le vicende che hanno visto protagonisti uomini e donne che per un solo giorno nella loro esistenza hanno incrociato il proprio cammino con quello di Gesù di Nazareth, e dei quali nulla è giunto fino a noi, se non quel singolo momento che cambiò la loro vita per sempre. 

Ognuna di queste storie ha un legame speciale con la mia vita, e la salvezza ricevuta ormai dieci anni fa, dopo uno dei momenti più bui della mia esistenza. In questo caso, GIAIRO è nato in seguito alla prima esperienza di amicizia libera che ho fatto: uno dei doni che ricevetti appena lasciata Roma.

Un racconto di coraggio e redenzione con il quale ho cercato di rispondere alla domanda che nessun uomo vorrebbe mai porsi: cosa sei disposto a fare per salvare coloro che ami? Una storia sugli effetti che il male ha sul cuore dell’uomo, e su ciò che salva dal buio più profondo, quando ogni altra luce si spegne.

A differenza di LEVI, qualcuno potrebbe restare turbato dalle tinte torbide di questa vicenda. Infatti, non tutte le storie di Salvezza sono pulite. Piuttosto direi il contrario: spesso non lo sono affatto. Tuttavia questo non le rende meno degne di essere raccontate. Sono convinto che quanto più sia cupo il buio da cui hanno origine, tanto maggiore sarà la luce alla loro fine.
  
Almeno così è stato per me.

Il libro, autoprodotto, è al momento disponibile sia in cartaceo che in digitale solo su Amazon, e come e-book su tutti gli store online, e questo significa anche che ho di nuovo bisogno di voi, per fare sapere ad altri che esiste. I vostri commenti saranno le mie vetrine, le vostre bacheche saranno i miei scaffali della libreria, il vostro passaparola sarà la mia pubblicità, le vostre mani saranno il mio networking: se vorrete, ancora una volta sarete per me quella Provvidenza che in tutti questi anni non mi ha mai lasciato.

Auguro a tutti voi di avere sempre accanto nei vostri momenti di buio almeno un amico vero che sia Luce e presenza di Dio nella vostra vita, ricordandovi ciò per cui vale la pena vivere: "l'amore più grande" cui tutti siamo chiamati.

Credenti o meno.

GIAIRO è acquistabile sia su Amazon che su Kobo e iTunes.

lunedì 2 gennaio 2017

"GIORNI DI UN FUTURO PASSATO", da LincMagazine, Dicembre 2015

Un anno fa si è conclusa la mia collaborazione con Manpower Group, azienda con la quale ho avuto modo di lavorre con gioia, e con la loro rivista Linc Magazine, per la quale tenevo la rubrica di storie di speranza sul mondo del lavoro "Io sto con Giorgio!". Questo fu l'ultimo articolo, in chiusura 2015 e in chiusura di un evento come EXPO, diventato famoso più per le polemiche che per le prospettive che si riprometteva di aprire. A un anno da allora, l'augurio che contiene mi sembra ancora attuale e valido per questo 2017. Il futuro che ci aspetta infatti affonda le radici nel nostro passato. Che le vostre radici siano sempre salde e profonde per permettere alle vostre fronde di stendersi lontano. 
***
La storia che vi racconto oggi è avvenuta un anno fa, durante uno dei miei soliti incontri casuali-volontari, e già allora mi colpì parecchio.

Mi trovavo sulla navetta per l’aeroporto di Linate e avevo appena ricevuto le bozze definitive della copertina del mio romanzo, Io sto con Marta!. Preso dall’entusiasmo, e un po’ dalla preoccupazione, senza pensarci su (difetto che ho spesso, quando parlo) mi voltai verso la mia vicina di sedile, una donna giovane, con un bimbo in braccio e brandendo il mio cellulare a un centimetro dal suo naso le chiesi: “Lei lo comprerebbe un libro con questa copertina?”

La malcapitata, pur stringendo un pelo più a sé il bambino, per fortuna ebbe la gentilezza di non alzarsi e scappare a gambe levate e mi rispose, dopo averci pensato un po’ su, che sì, le piaceva e l’avrebbe comprato.

Poco da dire: dopo un secondo ci stavamo raccontando le rispettive vite. E sentite cosa scoprii: la ragazza stava fuggendo dalla Germania per tornare nella sua terra, la Puglia. Tranquilli, niente che evocasse scenari da Seconda Guerra Mondiale.

Però no, non avete capito male: un’italiana, per di più meridionale, stava fuggendo dall’economia più florida del vecchio continente (o almeno così si dice) per tornarsene nella profonda terronia (sono terrone anche io, mi è concesso chiamarla così!).

Con il marito avevano deciso di sfruttare un’occasione propizia e aprirsi un negozio a Berlino un anno prima. E come lo avevano aperto, ora lo stavano chiudendo in tutta fretta per tornare a gestire quello di famiglia nel loro paese.

Perché, direte voi? È quello che le ho chiesto anch'io.

Semplice: quella non era l’Italia. La cultura, il tempo, il modo di stare assieme… tutto era diverso. E tutto questo non valeva i vantaggi economici e gli sgravi fiscali. Loro non volevano un futuro lì. Certamente lei e il marito erano più fortunati di altri ad avere una vera opportunità di scelta, ciononostante questa storia non mi ha lasciato indifferente. Il motivo per cui ve la ripropongo oggi, dopo un anno, è proprio legato al futuro che vogliamo.

EXPO è finita da poco: le code, i disagi e le polemiche sono a un tratto alle nostre spalle, insieme agli spettacoli, agli sponsor, alle luci e i giochi d’acqua e al sogno di un mondo che dia “energia per la vita”.

E adesso? Qual è il futuro che ci aspetta? Cosa resterà di questa immensa vetrina mondiale?

Se una cosa da questo evento ho imparato è che il nostro pianeta è composto di una varietà infinita di risorse naturali e culturali che vanno rispettate e preservate, poiché dalla diversità nasce la ricchezza. In tutti i sensi possibili.

Se però a questa diversità volteremo le spalle, forzati dalle circostanze a un’omologazione economica quanto culturale, saremo come alberi che protesi verso un corso d’acqua  finiscono sradicati dal terreno buono nel quale sono cresciuti, rischiando di morire.

Ecco, io credo che la storia della mia malcapitata compagna di viaggio ricordi a tutti proprio questo: le nostre radici ci dicono chi siamo, e senza di esse non possiamo vivere. E i Pugliesi, con i loro olivi secolari, lo sanno bene.

Se una speranza deve lasciarci EXPO è che nel futuro ognuno di noi possa “nutrire il pianeta”, dal piccolo frammento che ne occupa, in cui è nato è cresciuto, lì dove affondano le sue radici. Che chi parte, lo faccia perché vuole, come è capitato a me, e non perché deve. Che più che a una pianta che si sradica, sia simile a un rampicante, che arriva lontano continuando a nutrirsi della terra che lo ha generato. E che il lavoro, come l’economia, tornino a essere “energia per la vita” delle persone, e non la vita delle persone energia (o combustibile) per il lavoro.

Natale è vicino e a tutti è concessa una preghiera. La mia per voi, per noi tutti, sarà questa: che il nostro futuro non rinneghi il nostro passato.

A tutti, chi ce l’ha e chi ancora no,

Buon Lavoro!

lunedì 26 dicembre 2016

LA CANTILENA - Un racconto per voi

Nel 2011, per il corso di Alta Formazione "Il Piacere della Scrittura", dell'Università Cattolica, mi furono richiesti cinque racconti brevi, dei quali uno sarebbe poi stato pubblicato nell'antologia finale "Chi semina racconta", edita da Vita e Pensiero. Questo è il racconto che fu scelto. In occasione del Natale, lo regalo a voi.




LA CANTILENA - Un racconto di Giorgio Ponte

Abbiamo camminato tanto questa mattina. Non c’è il sole. Sento freddo e l’odore di umido mi invade le narici. Nebbia, o come mi ha detto lei che si chiama.
Siamo state in piedi. Ora da un po’ ci hanno fatto sedere.
Sudore.
È la prima cosa che avverto.
E paura.
Mia madre mi tiene la mano. Sento le sue dita stringersi attorno alle mie.
Ha paura anche lei.
È scomoda la panca. Di legno. Con l’altra mano ne afferro il bordo e sento la pelle grattare.
Le voci mi avvolgono in un guscio ovattato. Mormorano, seguendo gli altoparlanti. La cantilena che ci accompagna da sei giorni, ormai. La cantilena infinita. Quella che ci ha condotto qui.
È una strana parola, cantilena.
Somiglia a catena.
A un tratto mi rendo conto che è proprio questo, questa cantilena. Una catena. Un legame con la speranza. L’ultimo.
Mia madre mi dice di stare tranquilla, di non aver paura. Di affidarmi a Lei.
Ma sono io che vorrei dirle di non aver paura. Perché io sto bene. Sono solo stanca. E non capisco, non capisco proprio perché lei si faccia questo.
Si porta la mia mano alla bocca. Le sue labbra morbide sfiorano le mie dita. Sono umide.
“Non piangere, mamma”.
“Non piango, tesoro. Non piango” la sua voce sorride forzatamente.
Non sa mentire.
Ci spostiamo di nuovo. Per l’ennesima volta. Su e poi giù, in quello che sembra un labirinto di panche.
Accanto a me una donna che parla una lingua dura, fredda. Cantilena anche lei. È grossa. La sua coscia preme forte contro la mia mano, stretta al bordo. Indossa della lana infeltrita, ispida, che mi solletica il dorso.
Anche se non conosco la sua lingua, capisco le sue parole. Sono le stesse per tutti.
Singhiozza. Il suo cuore sciolto in quelle sillabe dure, mi commuove più del pianto di mia madre.
Essere tristi è brutto, ma dover esprimere la propria tristezza con una lingua così cattiva, è peggio. Eppure io la sento, la morbidezza del suo animo. In quel tono piagnucolante e spezzato. In quel timbro grave.
D’istinto abbandono il mio appiglio sicuro e le accarezzo la gamba, sotto la lana dura.
Sorrido voltando appena il capo. Il suo pianto aumenta. Ma la voce mi dice che il suo cuore è più leggero. Ora siamo insieme. Tutto passerà. Passerà presto.
Chissà quale peso porta il suo corpo, quale segno indelebile, forse invisibile. È grassa. Ma non può essere quello. Forse sta morendo. Come molti qui.
Mentre io continuerò a vivere, comunque.
Ci alziamo di nuovo. E stavolta qualcosa cambia. Entriamo. La stretta di mia madre si fa più forte.
Ora ho paura anch’io.
“Tesoro” si è chinata. Il suo respiro familiare mi scivola sul viso, riscaldando la pelle umida. “Tesoro” ripete. “Ora ti lascio a queste signore. Non spaventarti. Fai quello che ti dicono. Fidati”.
Annuisco.
“Io sono qui fuori. Ti aspetto".
Mi bacia sulle guance e mi stringe. Come se non ci dovessimo vedere mai più. Come se non fossimo abituate a quello.
Io, io sì. Ma lei no. Lei non si abituerà mai.
L’abbraccio, forte, cercando di risucchiare attraverso quel contatto il calore del suo corpo.
Quando ci allontaniamo sento il sale pizzicarmi la bocca.
“Vai” mi dice.
Il suo respiro si confonde fra i gemiti che vengono da fuori. A un tratto non la vedo più.
Qualcuno mi prende la mano.
“Vieni Anna” mi dice. “Rivedrai presto la mamma”.
Ho un moto spontaneo di fastidio verso quel tono accondiscendente, quell’espressione infantile. Ma faccio finta di niente, lo ignoro. Come al solito.
Camminiamo poco. L’ambiente e piccolo. Ci sono altoparlanti anche qui che trasmettono la cantilena. Rimbomba metallica sulla pareti, stordendomi. Mi sembra di essere nel bagno di casa. È anche umido allo stesso modo. I miei piedi scivolano un po’ a terra. È bagnato.
Non sono sola. L’odore della gente si è fatto più forte. Il puzzo di sudori estranei si mescola nell’aria pesante e stantia.
Ma qui nessuno parla. Nessuno risponde alla cantilena.
A un tratto la mia accompagnatrice si ferma.
“Bene, Anna” esordisce calma, mentre io tremo. “Dobbiamo toglierti i vestiti” guida la mia mano fino a una superficie fredda, liscia. “Vuoi aiuto?”
Scuoto la testa.
“Va bene. Metti pure tutto qui. Resta con l’intimo. Chiama quando hai finito. Siamo dietro la tenda. Fai presto”.
Avverto uno spostamento d’aria. Fidandomi di quella voce decisa, mi spoglio.
Non so cos’è il pudore. Non l’ho mai vissuto. Eppure in questo momento mi vergogno. Come se potessi avvertire la vergogna degli altri al di là della tenda, filtrare, fino ad attraversarmi la pelle, diventando mia.
Resto ferma, tremando, in mutandine e reggiseno.
Sento gli ultimi residui del calore di mia madre scivolare via attraverso i miei piedi nudi, sulle mattonelle del pavimento.
“Fatto” mormoro.
Di nuovo l’aria si sposta, stavolta la avverto su tutto il corpo.
Diverse mani mi tirano su le braccia. Faccio un po’ fatica a lasciarle fare. Ho freddo.
Mi appoggiano un velo addosso e guidandomi me lo avvolgono stretto intorno, sotto le ascelle. Mi abbassano le braccia per tenerlo fermo.
“Ora togli il resto, Anna”.
Impacciata nei movimenti scosto i capelli e faccio scivolare una mano sulla nuca, contro la pelle già umida, sotto il telo, per sganciare il reggiseno. Quel reggiseno che solo un anno fa mi ero conquistata.
Devo darlo via. Con la stessa incertezza nei movimenti, mi sfilo le mutandine, stringendo le gambe.
“Dai pure a me” dice la donna. “Te li ridarò dopo”.
Ora non ho più niente.
Una mano più morbida delle altre mi guida ferma, ma dolce.
“Di qua, Anna” dice. “Ora siedi. Tra un po’ sarà il tuo turno”.
Mi seggo, di nuovo, stretta nel telo.
Mentre aspetto, istintivamente contraggo gli alluci e intreccio le dita. Quanto durerà ancora?
Accanto a me avverto di nuovo respiri estranei, frammentati. Come i singhiozzi. Sentono freddo anche loro.
Mi concentro sulla cantilena. La cantilena non smette mai. Come un rumore di fondo, una nota costante, rassicurante.
Non tremo più.
Piano, piano le voci di prima chiamano altri nomi.
Veronica.
Anne Marie.
Susan.
Marta.
Solo donne. Siamo tutte femmine qui.
Ad ogni nome l’aria della tenda mi investe.
“Su-chi” il piano della panca si solleva leggermente alla mia destra. La prossima sono io.
Improvvisamente provo una gran paura. Una paura che non capisco.
“Anna, tocca a te”.
“Di già?” la domanda sfugge alle mie labbra prima che me ne accorga.
“È ora Anna” mi risponde la voce, in un modo che non so leggere.
Le mani morbide di prima mi aiutano ad alzarmi.
Facciamo pochi passi. Lo spostamento d’aria mi fa ballare il ciuffo sulla fronte. Con dolcezza, le mani sulle mie spalle mi tirano su i capelli e li fermano, alti, con una pinza.
“Che bel nome hai, Anna” dice la voce.
Accenno un sorriso, voltando appena la testa. La paura mi impedisce di parlare.
“Anche la mia mamma si chiamava così” continua lei.
Sento un nuovo spostamento d’aria. Rumore di ganci che scorrono in alto, davanti a me. Le mani di prima mi tengono stretta e ad esse se ne aggiungono altre due, sui miei fianchi.
“Ora fai attenzione” mi dice la voce. “Ci sono due gradini. È bagnato, ma non puoi cadere. Ti teniamo noi. Tu lasciati guidare. È freddo, ma non dura tanto”.
Annuisco.
Inizio a salire. I piedi lasciano le mattonelle lisce per appoggiarsi su qualcosa di duro e grezzo. Sembra pietra. Un sottile strato d’acqua la ricopre. Faccio un altro passo e salgo ancora.
Ho la sensazione che la cantilena negli altoparlanti si faccia più forte, come accordandosi alla paura del mio cuore.
Ora dovrei entrare. Sono lì. Le mani mi spingono leggermente in avanti.
Ma io non avanzo.
“No” dico.
“Che succede?” la voce di prima è carezzevole, nessuna nota di stupore. Dev’essere abituata a reazioni simili.
“Non posso…” la frase mi si spezza fra i denti.
“Perché?” la voce non ha fretta.
D’improvviso riconosco la mia paura.
“Io no. Io sono cieca”.
Non aggiungo altro. Ma la voce sembra capire. Lo sento da come mi stringe: una stretta salda, ma che somiglia a una carezza.
Sono cieca. Da sempre.
Sono talmente abituata ad esserlo che non so immaginare di essere altro. Mi va bene. Posso vivere così. Ho sempre vissuto così. Non ho mai voluto credere nemmeno per un istante che potesse essere diverso.
Invece ora spero. Irrazionalmente. Spero.
E non voglio.
Sperare mi fa male.
Eppure mi rendo conto di non saperne fare a meno, ora.
È la cantilena, quella cantilena che si è insinuata nel mio cuore, senza che me ne accorgessi.
Quella catena che mi chiede di affidarmi.
“Fidati” mi dice la voce, come se mi leggesse nel pensiero. “Non c’è nulla da temere. Nulla che possa farti male”.
Il respiro mi si calma. Annuisco. Di colpo mi rendo conto di quante donne lì fuori aspettano che io avanzi, perché arrivi il loro turno. Capisco di non potermi fermare. Ho già perso troppo tempo. Una strana frenesia mi prende. Non di vivere io il mio momento, ma di permettere a loro di vivere il loro. Raddrizzo il capo, e così, nuda, priva di tutto, lascio che le mani mi guidino.
Sollevo il piede e lo immergo nell’acqua.
È gelida.
Sale su, mentre il mio piede si immerge, dalla punta dell’alluce al tallone e fino al polpaccio: è come essere immersa in un freddo tanto greve da essersi addensato fino a diventare liquido. Però non mi fa tremare. Anzi, mi anestetizza.
È una bella sensazione, mi rende sicura.
La mani mi invitano a proseguire.
Immergo l’altro piede, più avanti rispetto al primo. E mi rendo conto che il fondo si abbassa, come in una scala sommersa.
L’acqua mi arriva oltre le ginocchia. Il telo aderisce alle gambe. Ora il freddo è tale da bruciarmi la pelle. Tengo la testa alta, mentre le lacrime mi graffiano il viso. Vado avanti, accompagnata dai pianti delle donne alle mie spalle, dalla loro cantilena di dolore.
Le sento su di me, con me: quel popolo di donne sofferenti.
Mentre avanzo, guidata dalle mani ferme delle mie ancelle, ho solo questo pensiero in mente: loro, non io.
Io no. Io posso vivere così.
Guarda loro, guarda le mie sorelle che attendono di morire.
Non so a chi sto parlando. Non La conosco. Eppure Le parlo come se non avessi fatto altro da che sono nata.
Lei.
“Vuoi immergerti?” la voce dolce mormora alla mia destra.
No, vorrei dire.
Poi l’odore di mia madre mi riempie le narici, come se fosse qui, accanto a me, in questo momento.
“Sì” rispondo.
Per te mamma. Lo faccio per te.
Basta che finisca presto.
“Affidati alle mie mani” mi dice la voce. “Lasciati andare indietro. Ti caleremo un istante sotto e poi ti ritireremo su”.
Annuisco.
Sento il buio ruotarmi attorno, l’acqua risucchiarmi nel suo ventre. Con un gemito svuoto i polmoni, la cantilena scivola via dalle mie orecchie.
E sono sola.


Il buio, gelido e denso, mi avvolge.
No. Non gelido.
Ora è caldo. Di un tepore rassicurante, che mi fa venire voglia di addormentarmi.
Non respiro. Non ne ho bisogno. Eppure sento un profumo. Un profumo strano, di fiori.
Resto sospesa in quel limbo di pace, senza tempo, e a un tratto mi rendo conto di non volermene andare.
“Lo vuoi, Anna?” la voce dolce mi parla di nuovo. La sento vibrare attraverso il mio corpo, nel vuoto nero e caldo che mi circonda.
“Chi sei?” chiedo.
“Sono io”.
“Chi?” le mie labbra non si muovono, ma la mia voce parla, nel buio. “Chi?” chiedo ancora.
Per un attimo il suo silenzio ferma il mio cuore.
“Chi?” imploro.
“Sono Lei”.
L’acqua sulla mia bocca si tinge di sale.
Annegare fra le lacrime, così si dice.
Così mi sento. Come se tutto questo nero fosse fatto solo di lacrime, di tutte le lacrime che non ho mai pianto, prima di oggi. Le lacrime mie e delle mie sorelle, che attendono.
“Perché?” sento la mia voce di bambina vibrare. Quasi non la riconosco.
“Lo vuoi, Anna?” chiede ancora Lei.
“Perché?” piango.
“Perché te lo stai chiedendo”.
Resto in silenzio.
“Racconta, Anna” la voce sorride. “Racconta ciò che hai ricevuto”.
“Perché io?” chiedo ancora.
“Racconta ciò che Dio ha fatto per te”.


Prima che possa replicare vengo strappata al silenzio, la bocca mi si apre e l’aria invadente mi gonfia il petto, stretto nel telo appiccicato alla pelle.
Sento le mani raddrizzarmi e rimettermi in piedi, mentre vengo scossa dai singhiozzi.
“Visto? Questione di un momento. È già passata” mi rassicura un’altra voce. “Ora ti facciamo uscire”.
Sto singhiozzando, ma non c’è tempo per consolarmi.
“Tranquilla. È normale” dice solo la nuova voce. E poi mi sospinge.
Incapace di dire qualsiasi cosa, continuo a singhiozzare, lasciando che quelle mani mi guidino fuori dall’acqua, indietro sui miei passi, e di nuovo al posto dove ho lasciato i vestiti.
Sono stordita, confusa. E non capisco cosa sia successo.
Con il loro aiuto mi rivesto più in fretta che posso, combattendo il tremolio irrefrenabile che mi attraversa dalla testa ai piedi.
Non è freddo.
Non so cos’è.
Prima che me renda conto, vengo asciugata alla bell’e meglio e rivestita. Qualcuno mi riconduce all’uscita.
“Resta qui” mi dicono. “Vado a chiamare tua madre”.
Mi fanno appoggiare a una specie di pilone di legno e mi abbandonano, ancora in preda ai singulti.
Resto aggrappata a quell’ancora, smarrita, per un tempo che mi pare infinito.
Lentamente, il respiro mi si placa. Muovo la testa a destra e a sinistra, in attesa, mentre la cantilena negli altoparlanti si allarga, instancabile, nello spazio aperto.
La cantilena.
Finalmente l’ascolto. Ora è nella mia lingua.
…tu sei benedetta fra le donne, e benedetto è il frutto del tuo seno…”.
E rispondo. Come mi hanno insegnato.
“Santa Maria, madre di Dio …”.
Un vento sottile ha preso a tirare, portando il rumore delle fronde degli alberi, oltre il gorgoglio del fiume. Inalo il profumo dell’erba e lascio che quell’odore, piano, piano, finisca di quietare il mio cuore.
Avverto un piacevole calore solleticarmi il viso.
Dischiudo appena le palpebre, nel bianco che mi circonda.
Sorrido.
“Anna!” la voce di mia madre. È alle mie spalle.
Sembra allarmata.
Quasi sapesse. Quasi presagisse che qualcosa è cambiato.
Mi volto e la vedo.
Per la prima volta, fra le lacrime, io vedo mia madre.

***

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