Quarta e
ultima parte di un lavoro complesso che a partire da domande generiche ha
cercato di indagare le ragioni di quella morale che da sempre la Chiesa ha
insegnato a partire dal vangelo. In quest'ultima domanda ho cercato di andare
al fondo di cosa significhi amare davvero per un cristiano (a prescindere
dall'orientamento sessuale), dentro e fuori dal matrimonio e della grande
possibilità d'amore che la società occidentale sembra avere dimenticato, ma che
Gesù ha proposto come possibile per ogni uomo: l'amicizia.
L'amore è fatto di ben altro che della semplice attività genitale - che però ne è un componente. Perché la Chiesa ne fa, in alcuni casi (e non penso solo all'omosessualità) un peccato? Come si fa a respingere l'amore?
Prima di parlare di
“respingere l’amore”, bisognerebbe capire cosa l’amore sia per un cristiano (e
quindi per la Chiesa). Non c’è parola al mondo che sia stata più equivocata e
abusata nella Storia, ieri come oggi. Dietro ad essa si nascondono infinite esperienze
che con l’amore non hanno nulla a che vedere: possesso, gratificazione, abuso
psicologico, dipendenza affettiva, piacevolezza della compagnia, sesso, scambio
di favori, convenienza, paura di stare da soli...
Per i cristiani però non
esiste amore che non abbia come riferimento l’amore di Cristo: dare la vita
per i propri amici (Gv 15, 12-17)”. Gratuitamente. Perché gratuitamente avete
ricevuto, gratuitamente date (Mt 10,8).
L’amore di Cristo è un
amore che dà senza condizioni, un amore libero che rende liberi, un amore che
non possiede, ma esalta, gratifica e accresce. In ordine a questo non c’è
Chiesa al mondo che possa definire l’amare così un peccato, che a viverlo siano
un uomo e una donna o due uomini o due donne. Tutto ciò che invece non rientra
in questo modo di amare, semplicemente non è amore.
Di tutto questo però “l’attività genitale” non è che un’infinitesima parte, peraltro non di certo la più importante. Essa è solo una espressione di una sola delle esperienze d’amore possibili tra due persone: l’amore sponsale. E anche in questo caso essa ha un senso solo in forza di tanto altro, che ha a che fare con la totalità di donazione esistenziale che solo nel matrimonio si può vivere. Come farei altrimenti a donarti la totalità del mio corpo (e quindi la totalità di me stesso, dal momento che io sono il mio corpo), se non ti ho donato la totalità della mia vita? Il rapporto sessuale infatti non ha senso se non a partire dalla verità di quella donazione, scritta nella promessa che gli sposi si fanno. Per tutta la vita, appunto.
È per questo che solo nel sacramento la genitalità diventa uno degli strumenti che rendono la coppia, anche nella sua unione carnale, immagine del Dio incarnato. Non a caso, questo è l’unico atto con cui l’uomo e la donna possono partecipare della creazione, generando nuova vita: una cosa che nessuna coppia omosessuale, per quanto fisicamente sana, potrà mai compiere. Per questo, per la Chiesa, l’atto sessuale tra uomo e donna nel matrimonio ha lo stesso valore sostanziale della consacrazione eucaristica sull’altare: l’unione sessuale, in comunione con Dio, trasforma la coppia in eucaristia, e il letto in altare. L’amore nuziale nel rapporto sessuale, diventa il dono di sé di Cristo alla Chiesa, il sacrificio che sconfigge la morte.
Capite quanto sia straordinario?! Mentre noi, anche tra uomo e donna, ci preoccupiamo di quanto ‘si può fare o non si può fare’, quanto toccarci, strusciarci, spogliarci, se ci si possa masturbare a patto di non venire; se il sesso orale possa essere un ‘gesto d’amore’; se il sesso anale sia un ‘dono di sé’; dopo quanto tempo possiamo sentirci autorizzati a fare cosa e con chi senza sentirci in colpa, ecc. ecc…, arriva qualcuno che alza il nostro sguardo da quello che ci succede in mezzo alle gambe e da tutte le scuse che cerchiamo per usare l’altro come strumento di piacere o gratificazione e ci chiede: “ma tu, sei in grado di amare davvero? Di amare come Cristo? Di diventare pane per gli altri? Di dare la vita? Di NON possedere? Di ricevere l’altro come dono, al di là del piacere che ti dà? Sì? E come lo sai se non sai stare con l’altro senza saperlo attendere, senza saper rinunciare al piacere che lui ti potrebbe dare? Dov’è la prova?”.
Ecco, di nuovo, se tutto questo passa come “tranchant” agli occhi del mondo… Be’ forse è perché a volte il mondo non ha molta voglia di sentirsi porre domande scomode sulle ragioni per cui vive le cose.
Capite come, al confronto con questo, qualsiasi altro modo di vivere la genitalità risulti una misera imitazione e uno svilimento di ciò per cui siamo fatti.
Tuttavia, il fatto di non potere vivere questo tipo di esperienza nell’unione sponsale, non solo perché persone con attrazione omosessuale, ma magari perché un marito o una moglie non ce l’abbiamo ancora (e forse non ce l’avremo mai), non deve rattristare, perché non preclude l’esperienza dell’amore autentico e donativo della vita. Infatti questa è un’esperienza che può fare chiunque a prescindere dallo stato di vita. Se così non fosse, se l’uomo potesse amare come Cristo solo nell’amare la propria moglie o il proprio marito, questo costituirebbe un’enorme ingiustizia nei confronti di tutti quelli che per un motivo o per un altro non hanno mai potuto vivere quel tipo di unione. Ma Dio non ha fatto l’uomo perché restasse solo (Gen 2,18), tuttavia non ha fatto tutti gli uomini perché fossero uniti in matrimonio.
Per questo motivo quando Suo Figlio ha consegnato un insegnamento sull’amore ai suoi discepoli non ha parlato di amore sponsale, ma di amicizia. Questo significa che è nell’amicizia che si può vivere l’amore che Cristo ci ha chiamato a vivere per essere santi. Perché l’amicizia può essere questo: un amore per la vita che dà la vita.
Il problema è che per
molti di noi l’amicizia ha perso completamente il suo valore fondamentale e
fondativo della persona: essa è considerata un riempitivo tra una relazione e
l’altra, o un diversivo quando la nostra relazione non funziona. Invece l’amicizia
è la prima forma di amore a cui siamo chiamati, l’unica che è possibile sempre,
per tutti, ovunque.
Persino una coppia che
non abbia amici, sarà destinata alla lunga a fare molta più fatica nella sua
vita relazionale. La nostra società ha idolatrato l’amore di coppia svalutando
quello dell’amicizia ed è questo che ci ha resi tutti più soli, in cerca di
qualcuno che ci dia senso e che ci faccia sentire desiderati attraverso una
relazione vissuta sessualmente, incapaci di accorgerci dei migliaia di potenziali
fratelli attorno a noi che aspettano solo un amico con cui poter condividere la
vita.
L’incremento di
esperienze omosessuali tra i più giovani (e non solo) è in parte da attribuire
anche a questo: siamo talmente poco abituati a fare l’esperienza dell’amicizia
profonda che quando abbiamo un legame più stretto con un amico, invece di
prenderlo per il dono che è, ci interroghiamo se esso non debba per forza nascondere
“qualcosa di più”. Praticamente per sentirci autorizzati ad avere un desiderio
preferenziale con qualcuno da amici, dobbiamo farlo diventare il nostro
partner, mettendo di mezzo anche un aspetto genitale che non aggiunge niente a
quel rapporto, ma anzi lo svilisce. Dimenticando che anche Cristo, pur
essendosi donato a tutti totalmente, ha scelto alcuni in modo preferenziale su
questa terra, perché lo accompagnassero in certi momenti importanti della sua
missione pubblica, diversamente da altri. Mi riferisco a Pietro, Giacomo e
Giovanni, scelti fra gli scelti. Eppure con nessuno di essi aveva rapporti
sessuali.
Perciò va da sé che,
se l’amore sponsale non è per tutti, anche la genitalità non è per tutti.
Ciò che invece è
certamente per tutti è l’esperienza dell’Amore, quello vero, quello che libera,
quello che ti apre all’altro senza possedere. Due uomini possono amarsi in
questo modo, come ama Cristo, ma per farlo non serve che vivano la genitalità.
Basta che siano amici, amici veri. Per la vita. Con un’intimità a cui il sesso
non potrebbe aggiungere nulla. Poiché come abbiamo già detto in un’altra partedi questa intervista, la genitalità fra persone dello stesso sesso non ha
alcuna possibilità di diventare segno donativo, ma anzi finisce col rendere
l’altro un oggetto sessuale, volenti o nolenti, per tutti i motivi che abbiamo
già spiegato, legati all’ordine inscritto nella nostra carne.
La Storia, anche
quella della Chiesa, è piena di testimonianze di santi amici che hanno
condiviso vita, progetti, passioni, e persino la morte, insieme, fianco a
fianco fino alla fine. E sfido chiunque
a dire che quello non fosse amore o che valesse meno perché non c’era la
dimensione genitale.
È difficile costruire
amicizie così, lo so, ma d’altra parte anche trovare moglie e marito è molto
più difficile di quanto il mondo porti a credere.
È amare che è difficile,
quando lo si fa davvero. Di più: è da Dio.
Perché le nostre
ferite ci rendono schiavi, e ci sono pulsioni dentro di noi che agiscono al di
là delle intenzioni che avremmo, portandoci in certi momenti a usare l’altro al
di là di ciò che vorremmo; un’esperienza di cui lo stesso San Paolo in primis
ha fatto esperienza: Faccio il male che non voglio e non faccio il bene che
voglio (Rm 7,19).
Tuttavia fare il Bene,
amare davvero, è possibile. O Cristo non ce l’avrebbe chiesto.
Se smettessimo di
sprecare tutte le nostre energie per trovare modi di manipolare Dio in modo da ‘fargli
fare’ quello che noi abbiamo giudicato buono per noi e ci preoccupassimo di
capire cosa Lui ha preparato di buono per noi, chiedendoGli di insegnarci ad
amare così, forse quel senso di frustrazione e risentimento che molti sentono
rispetto alla Chiesa verrebbe meno. E potremmo finalmente fare esperienza della
gratitudine verso un Dio che ci ha fatti per gustare cose molto più grandi di
quelle che la nostra piccola mente avrebbe mai potuto immaginare.
Un pezzo di paradiso già
su questa terra.
P.S.
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