Ogni volta che scendo in Sicilia mi chiedo cos'altro troverò di chiuso. Perché se la crisi si sente ovunque, è vero che da noi si sente di più.
E così se percorri Via Ruggero Settimo, la strada che in un’altra
epoca era stata il Salotto Buono di Palermo, ti può capitare di passeggiare fra
le macerie di quel mondo antico; macerie invisibili e per questo peggiori di
quelle della Seconda Guerra Mondiale, perché presenti solo nel ricordo di chi quel
mondo l’ha vissuto o almeno ne ha assaporato gli ultimi respiri, e quindi
destinate a sparire con lui.
Passi davanti ai resti della vecchia Libreria Flaccovio,
per decenni l’ultimo baluardo dell’antica editoria palermitana, e scopri che al
suo posto c’è un negozio di abbigliamento, di quelli che fa i vestiti in Cina o
chissà dove; prosegui rattristato e ti ritrovi davanti al ventre vuoto di
Mazzara, il caffè che per cento anni ha nutrito i Palermitani di dolci e
prodotti fragranti, dove Tomasi Di Lampedusa, sotto gli occhi di mio nonno,
scriveva a un tavolino il suo Gattopardo, e dove ora giace un locale buio e
senz’anima. Torni indietro, più giù, in cerca di qualcosa che ti ricordi la
città in cui hai vissuto e i tuoi piedi ti portano davanti Carieri&Carieri:
generazioni di uomini palermitani hanno comprato qui i loro abiti di alta
sartoria. Di padre in figlio, la tradizione di chi voleva un completo che
durasse una vita, veniva consacrata in questo luogo.
Chiuso anche lui. Le prove della sue esistenza si
impolverano nel mio armadio.
Mi guardo intorno, e scopro che al posto dei luoghi che
davano un’anima a questa città è tutto un brulicare di marchi stranieri. A un
tratto passeggiare qui, o in Corso Vittorio Emanuele a Milano, o in Via del
Corso a Roma è esattamente la stessa cosa.
Tutto perduto.
O forse no...
Quando sono sul punto di credere che questo nostro mercato
globale abbia ucciso la bellezza delle produzioni locali, mi infilo in una
stradina sconosciuta ed eccolo lì, un baluardo di speranza.
Nascosto agli occhi del grande pubblico un negozietto con
un’insegna divertente attiva i miei ricordi: “Le rompiscatole”. Qui, da tredici
anni, un paio di donne hanno messo su una realtà artigianale che sopravvive in
barba a tutti i trend del momento: in un posto grande quanto la mia camera da
letto le proprietarie realizzano e mettono in vendita oggetti di arredo
decorati a mano. Pezzi unici, deliziosi, allegri. Di quelle cose considerate
assolutamente inutili e che costano pure un po'. Quando hanno aperto, non c’era
ancora la crisi di oggi, eppure io avevo predetto (con molta poca lungimiranza):
“Bello. Un anno e chiuderà”.
Oggi le rompiscatole sono ancora lì, a smentirmi, premiate
dal loro talento e da quell’esser artigiane e un po' artiste in un'epoca in cui
le nuove tecnologie sembrano l'unica frontiera possibile per il mercato: una
generazione di passaggio tra un mondo che non esiste più e uno che non esiste
ancora, a ricordarci che ciò che ha reso l'Italia (e la Sicilia) apprezzate nel
mondo sono proprio la creatività e l’abilità fondate su un valore
irriproducibile in serie: la mano umana, che fa diversa ogni cosa, e proprio
per questo rende ogni cosa unica.
Entro, facendo tintinnare la campanella, e vengo subito
accolto dal sorriso gentile delle due ragazze. Lo stesso che resta immutato da
tredici anni.
Lo stesso che fa sorridere anche me.
Sospiro sollevato. Forse non tutto è perduto.
A tutti, chi ce l’ha e chi ancora no,
Buon Lavoro!
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